TRAMA
Nana lascia il suo ragazzo ma, anche se lavora presso un negozio di dischi, non ha più soldi per pagare l’affitto e perde anche la casa. Inizia a prostituirsi.
RECENSIONI
Film in dodici quadri “pensato, dialogato, girato, montato, in breve: diretto da J-L Godard”, Questa è la mia vita (pedestre titolo italiano che spezza la rotonda ambiguità di Vivre sa vie) è una bruciante riflessione sulla natura e sui limiti della rappresentazione cinematografica. L’autentico protagonista del film non è Nanà (un’Anna Karina in stato di beatitudine) né, più ampiamente, il fenomeno della prostituzione nella Parigi dei primissimi anni Sessanta, ma il linguaggio: il linguaggio come strumento e calco del pensiero, il linguaggio come sistema di rappresentazione, il linguaggio come luogo di ricerca e sperimentazione. Godard mette in scena la vicenda di Nanà – giovane impiegata che finirà per prostituirsi ed essere accoppata durante uno scontro a fuoco tra macro - impiegando una serie impressionante di soluzioni espressive: inquadrature fisse impassibili, rapide panoramiche orizzontali, carrellate laterali e semicircolari, lunghissimi piani sequenza, camera car “perlustrativi”, jump-cut a raffica, riprese documentaristiche, soggettive “danzanti”, interpellazioni e oggettive irreali. Insomma, non c’è figura del linguaggio cinematografico che non faccia la sua comparsa nel film. Godard, è lampante, sta cercando di rispondere a una domanda cruciale: qual è il modo giusto per rappresentare la vita? Come si fa riformulare cinematograficamente la realtà senza tradirla? Ogni scelta è a rischio di errore e menzogna, ovviamente, e il filosofo Brice Parain ricorda a Nanà (e allo spettatore) che nel linguaggio menzogna ed errore sono pressoché inscindibili e indiscernibili. Evidentemente a Godard preme moltissimo trovare le parole cinematografiche “giuste”, quelle che riescano ad esprimere esattamente ciò che vogliono significare, senza ferire, senza straziare. Ma l’esattezza linguistica presuppone una pratica costante, un esercizio continuo, una ricerca instancabile: consapevole della fallibilità della sua sperimentazione, in Vivre sa vie Godard esplora problematicamente tutte (o quasi) le soluzioni espressive che il linguaggio cinematografico gli mette a disposizione. C’è un che di struggente, di commovente in questa sperimentazione, come se accanto alla coscienza positiva della ricerca fosse sempre viva e palpabile una contrastante tensione negativa, come se la fiducia dell’impresa fosse accompagnata da un sotterraneo brivido di sfiducia: la moltiplicazione delle opzioni linguistiche non rischia forse di disintegrare l’unità dell’idea di partenza? La proliferazione delle soluzioni espressive non condanna forse alla parzialità, alla relatività dei punti di vista? La soluzione inevitabilmente provvisoria e incompleta offerta da Godard è uno splendido film in dodici quadri che aspira all’assolutezza della rappresentazione (l’espressione assolutamente adeguata alla vita stessa), enunciandone e denunciandone paradossalmente l’impossibilità: “Volevo dire questa frase con un’idea precisa e non sapevo quale fosse la maniera migliore di esprimere quest’idea. O meglio, lo sapevo ma adesso non lo so più, mentre, appunto, dovrei saperlo”. Parola di Nanà.