Drammatico, Sala

QUELLO CHE NON SO DI LEI

Titolo OriginaleD'après une histoire vraie
NazioneFrancia/Belgio/Polonia
Anno Produzione2014
Genere
Durata110'
Tratto dal dal romanzo di Delphine de Vigan
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Delphine è l’autrice di un romanzo dedicato a sua madre che è diventato un best seller. La scrittrice riceve delle lettere anonime che l’accusano di avere messo in piazza storie della sua famiglia che avrebbero dovuto rimanere private. Turbata da questa situazione Delphine sembra non riuscire a ritrovare la volontà per tornare a scrivere.

RECENSIONI

Fin dai primi cortometraggi, cioè da ben prima che quel film venisse realizzato, il cinema di Roman Polanski può legittimamente venire descritto come una sorta di escrescenza spuntata da uno dei buchi lasciati ne La passeggera dalla morte del suo autore Andrzej Munk. Anche quando parla di tutt'altro, infatti, la filmografia polanskiana è il frutto dello scivolamento l'uno sull'altro di quei due moduli tematici che sono la dialettica servo-padrone e l'olocausto come fenomeno-chiave della contemporaneità. Chiaramente questi due moduli non si incastrano perfettamente l'uno con l'altro, ma anzi producono un vistoso attrito; la forza del cinema di Polanski sta nella conversione di questo attrito in spaesamento commedico, quando non addirittura comico, ottenuto soprattutto portando la lezione di Hitchcock oltre se stessa (di post-hitchcockiani ce ne sono tanti, ma pochi sono altrettanto intelligenti di Polanski). Diciamo insomma che il cineasta polacco sta cercando da decenni di rigirare l'hitchcockiano Lifeboat convertendolo a quel teatro dell'assurdo che nel bel mezzo della guerra esso non poteva ancora essere.
Uno che sull'olocausto e sulla dialettica servo-padrone (ambedue sotto mentite spoglie) ci lavora dagli anni Sessanta, figuriamoci se si mette a prendere sul serio quella nuova, e ormai derisoria, manifestazione dell'universo concentrazionario che sono i reality show. I seriosi trattati sulla colpa perpetua, e sull'assenza di scampo possibile per chiunque da uno sguardo voyeurista che ormai è dappertutto, fuori e dentro di noi, li lascia fare a barbogi alla Haneke o consimili. Lui preferisce tenersi stretto il dono prezioso della futilità.
Invero, al centro di D'après une histoire vraie c'è proprio la domanda: come si vive dopo i reality show? Il nuovo romanzo di Delphine, scrittrice che ha incontrato un travolgente successo dando in pasto ai lettori i segreti della sua vita famigliare, intende proprio dare una risposta a questo interrogativo: come riuscire a considerare “propria” la propria vita, dopo avere sacrificato completamente la propria dimensione privata fino a trovarsi come “nudi di notte davanti ai fanali accecanti di un'automobile”? A usare questa metafora, che con ogni evidenza non è senza ricordare il dispositivo concentrazionario, è Elle/Elisabeth, giovane ghost writer che inizia con Delphine una torbida amicizia, attraverso la quale la scrittrice spera di superare il blocco creativo che la attanaglia. Elle/Elisabeth, in realtà, non esiste: essa non è che una proiezione di Delphine dello sguardo degli altri, e dunque è un'introiezione di quel “dover essere” in modo da potersi presentare al loro cospetto con un'adeguata immagine di sé. È quella che risponde diligentemente a tutte le mail, che pulisce casa, che cambia gli elettrodomestici quando si rompono, mentre Delphine si rannicchia in una posizione di sempre crescente paralisi e impotenza – o meglio: mentre Delphine si rimpicciolisce fino a diventare quel punto vuoto e infinitesimale che è il sé, Elle/Elisabeth si pone sempre di più come “cura del sé”, o meglio ancora “tecnica del sé”. Solo grazie a questo sdoppiamento (quello celebrato e ritualmente riconfermato in qualsiasi reality), Delphine riuscirà a spacciare un'altra finzione (la vita di Elle/Elisabeth) per “una storia vera” da dare in pasto al pubblico, che potrà dunque voyeuristicamente ritrovarcisi.
Detta così, non siamo molto lontani dal circolo vizioso tra l'onnipresenza dello sguardo del pubblico che crea di converso il bisogno di una qualche sfera privata in cui rintanarsi, e l'ossessione del privato affinché il pubblico abbia qualcosa su cui porre lo sguardo. Sarebbe, questo, il circolo vizioso in cui si crogiolano i barbogi alla Haneke, i quali fingono di rovinare il godimento voyeurista dello spettatore rivelandolo come manipolazione ai danni dello spettatore stesso (“tu, spettatore, credi di godere del tuo piccolo voyeurismo ma esso è possibile solo grazie a me, occhio che tutto vede”), in realtà rimpiazzandolo con la coscienza intellettualistica della manipolazione e della colpa. Si tratta, in breve, di una sorta di ri-protestantizzazione del cattolico Hitchcock, supremo manipolatore, attraverso cui viene recuperato un qualche spazio (“privato”, “voyeurista” etc.) per il soggetto nel momento stesso in cui si finge di affermare che il soggetto non ha scampo, braccato da ogni lato dagli sguardi altrui, che lo riducono sistematicamente a pura esteriorità senza residuo. Cosa che peraltro fanno pari pari i reality, ma con in più un marchio “radical chic” di coscienza intellettualistica distintiva.

Polanski riesce a sfuggire da questo penoso teatrino attraverso cui le cadaveriche spoglie di Pubblico e Privato si sostengono a vicenda, è perché sceglie di gettare alle ortiche la miserrima coscienza intellettualistica su cui si beano con tanta tanta indulgenza i suddetti barbogi. «Non c’è proprio nessun segreto», dice Delphine a un certo punto, e la stessa cosa vale per il film stesso, che “telefona” il proprio segreto di Pulcinella (Elle/Elisabeth non esiste, è solo una proiezione di Delphine) dopo neanche cinque minuti, e lo rende via via sempre più ovvio. Tanto ovvio che alla fine non ci sarà neanche bisogno di rivelarlo, tanto inequivocabili sono state via via le frequenti allusioni – nessuna delle quali però, e questo è assolutamente cruciale, si spinge a un’esplicita affermazione dell’inesistenza di Elle/Elisabeth. In questo modo, il film sovverte il meccanismo per cui prima si viene manipolati, e poi si acquisisce la coscienza di essere manipolati: tale coscienza arriva appena compare Elle/Elisabeth, o comunque pochissimo dopo, ma anche da lì in poi Polanski riesce comunque ad incollare lo spettatore allo schermo, all’evoluzione dei rapporti tra Delphine e Elle/Elisabeth, senza che il fatto che la seconda esista o meno abbia la minima rilevanza.
Sporcandosi le mani come un Haneke non farà mai, Polanski coinvolge lo spettatore per pura virtù di regia, costruendo una progressione millimetrica in cui le cose sembrano sempre sul punto di degenerare ma non lo fanno mai, e lavorando sul tono e sul mood affinché l’inquietudine derivante da questa catastrofe annunciata ma mai accaduta si tramuti in beffarda ironia – l’inconfondibile beffarda ironia polanskiana, che flirta da decenni con l’assurdo.
Non solo dunque Elle/Elisabeth non esiste, ma più in generale D’après une histoire vraie è letteralmente un film fatto di niente, ma a quel niente Polanski riesce a incollare lo spettatore per pura virtù di manipolazione, giocando da maestro con il punto di vista di Delphine, degna erede della Deneuve di Repulsion. Perché è soprattutto Delphine a non essere fatta di niente: il film infatti darà infine ragione alle lettere anonime ricevute dalle scrittrice, che la accusano di non essere niente più di mistificatoria tecnica mediatica, mostrandola via via come un punto vuoto sempre più evanescente a lato di quella “tecnica del sé” in carne ed ossa che è Elle/Elisabeth. Attenzione però: quel niente non è il nulla assoluto – è pur sempre “qualcosa”, e quel “qualcosa”, molto semplicemente, è il soggetto, che altro non è se non quel niente che si aggiunge alla tecnica di se stesso. A Polanski quindi non interessa vendere come un Haneke qualsiasi la coscienza che “il soggetto non ha scampo, braccato dall’occhio onnipresente della società, ma almeno ha la coscienza di non averlo”: a Polanski piuttosto interessa mettere lo spettatore davanti a quel nulla che è il soggetto, cioè a quel nulla che è lo spettatore stesso, così come Delphine via via si palesa spettatrice di se stessa, perché è in quel nulla che ci si gioca, sempre e ovunque, tutto.
In quest’ultima opera, ci è riuscito vampirizzando, svuotandola di spessore e consegnandola a un puro cinema-cinema che arzigogola sul nulla per pura virtù manipolatrice, la sceneggiatura di un ghost writer di lusso: Olivier Assayas. Uno che riesce molto spesso nel miracolo di fare un cinema che è davvero cinema, pur rimanendo estremamente costruito e cosciente di sé. Di conseguenza, visto il singolarissimo rapporto instauratosi tra questi due straordinari uomini di cinema, è davvero possibile affermare che sì, D’après une histoire vraie è davvero tratto da una storia vera: quella della propria genesi.