TRAMA
Un gruppo di aitanti twenty-something decide di passare il weekend in una casa isolata nel bosco. Sì, ricorda parecchio Evil Dead e sì, è un meta-horror.
RECENSIONI
Quella casa nel bosco è, ça va sans dire, un meta-film. L’horror è il terreno privilegiato della destrutturazione, quello con i tic linguistici più evidenti (dialettica campo-fuoricampo, la scala dei piani) e i topoi narrativi sclerotizzati (le case nei boschi, i giovinastri arrapati vittime sacrificali), dunque destinato naturalmente ad essere smontato (e dileggiato) nei suoi grossolani meccanismi di funzionamento. A diversi livelli, infatti, con maggiore o minore consapevolezza, a embricati gradi di evidenza, a partire dai postmoderni anni ‘90 film come Scream, Cabin Fever o Final Destination (solo per citare alcuni casi eclatanti) hanno giocato con la loro appartenenza al genere. Tanto che, ormai, lo stato di salute dell’horror, per così dire, “puro”, è argomento divertente da dibattere. Si era sperato nei giapponesi, ora seguiamo con interesse la nouvelle trouille francese, ma insomma, quando si giunge alla metaparodia della metaparodia dei vari Scary Movies, sulla vitalità del referente primo non verrebbe da scommettere un euro cent.
Drew Goddard scende nell’agone, dunque, e meta-dice la sua. Provando a meta-dire qualcosa di nuovo. Le ambizioni sembrano da subito alt(r)e, visto che tutto il prologo, di ordinaria misteriosità, è chiuso con una semicitazione dall’incipit di Funny Games, di Haneke, con titolo-sorpresa e audio extradiegetico straniante. Vi è, sottesa, un’attitudine autoreferenziale meno ludica del solito ma più seriosa, quasi concettuale. Altrove, e spesso, l’horror viene smontato con affetto, in operazioni che se da un lato smantellano il genere, dall’altro lo omaggiano, tentando di dimostrare che, no, tutto sommato l’horror non è ancora morto (Craven è l’esempio lampante). Goddard non sembra interessato a far funzionare il suo film come horror e tutto appare congelato, disinnescato, “morto”. La componente meta- è assorbita nel tessuto narrativo, diegetizzata, creando in un certo senso un distacco ancora più netto dalla materia trattata. Non solo, infatti, è il film a giocare con i cliché ma sono gli stessi personaggi del film che conoscono e generano artificialmente i loci privilegiati del genere (il rilascio di gas ferormonici che eccita i giovinastri, la scelta del mostro tra una serie di classici, e così via).
Metatesto manifesto, insomma, dichiarato per filo e per segno nel pre-finale, in cui la (ipotetica) morte dell’ultima vittima viene relegata sullo sfondo, schermo/i nello schermo, mentre i burattinai se la ridono e brindano, con fin troppo esplicito disinteresse per “il film (horror)” nel film. E’ quello che avviene dopo che rimescola un po’ (troppo?) le carte in tavola. Perché Goddard e Whedon appiccicano una coda inattesa, colma di spiegazioni ma nondimeno confusa, che scatena un’ipertrofia cinefila spiazzante (l’irrompere delle creature), tira in ballo il solito Lovecraft (gli antichi) e rischia di mandare veramente in vacca tutta l’operazione. Se la posta in gioco era quella (più o meno, la fine del mondo e non una sorta di “reality terminale”) allora l’atteggiamento ludico e scanzonato dei consapevoli figuri dietro la console, i loro dialoghi quotidiani, le loro scommesse diventano difficili da collocare sensatamente nel contesto. Come se, dopo l’horror dileggiato e privato di qualunque vis, anche il film stesso, Quella casa nel bosco, decidesse di autodistruggersi in una manciata di minuti, buttandola in caciara, scomodando “veri cliché” e privandosi di qualunque livello di lettura veramente solido e coerente (per non dire “valido”). La tentazione sarebbe quella di parlare di suicidio volontario, sottilmente iperironico, in quella postmoderna attitudine al metadileggio che finisce par autocannibalizzarsi. Il dubbio è che Goddard e Whedon non sapessero semplicemente come chiudere ‘sto film e abbiano cercato di mettere un sacco di carne al fuoco per poi lasciarla lì, ormai immangiabile, a carbonizzare.
Ma quando si arriva ai processi alle intenzioni, è il segnale che bisogna chiudere. Comunque la si voglia mettere, tra i molti se e i parecchi ma, Quella casa nel bosco ha un suo obliquo fascino.

Esordio registico col botto per lo staff writer di fiducia di Joss Whedon (che scrive e produce) su serie come Buffy l’Ammazzavampiri e Angel, passato al grande schermo con la sceneggiatura del seminale (nel bene e nel male) Cloverfield. Lo spunto è puro La Casa (Evil Dead): i soliti ragazzini con troppo tempo libero che cercano un posto isolato e trovano una botola verso l’inferno. La variante non da poco è che qualcuno li osserva da un laboratorio atto a salvare il mondo: nessun come o perché a seguire, ricorda la fantomatica “botola” di Lost, e Goddard è stato sceneggiatore e supervisore alla produzione del serial. Gli occupanti del laboratorio sono spettatori del film. Siamo noi. Con cinismo (maggiore: sanno che ciò che stanno guardando è vero), scommettono sulla sorte dei caratteri, desiderano vedere le nudità della bionda, esultano di fronte alla mattanza. Metacinema che diventa…il solito reality: gli osservatori sono anche registi su un set in cui possono manovrare luci, mostri e, come si fa con gli attori, spingere le vittime a fare ciò che vogliono, in vista di un risultato finale. Che, in un horror, è l’orrore: a seguire ritorni metatestuali su tutti i topoi del genere, ma coscienti. Il fine ultimo (del film? Del film nel film?), però, è una riflessione sulle immagini: emblematica, in tal senso, la scena in cui la protagonista trova il suo carnefice, Goddard sposta il quadro (lo sguardo) su di un monitor e osserva i “funzionari” fare festa. Cinema di genere in cui la metatestualità è un gioco originale che depotenzia l’orrore e introduce un mistero (scopi e modalità dei “funzionari”) la cui soluzione, per una volta (cult immediato), non delude le aspettative: scenario da Men in Black, mitologia lovecraftiana e greca, con dilemma finale (salvare uno o tutti?) risolto in modo coraggioso e sorprendente, mentre il regista nella finzione (così viene chiamata Sigourney Weaver nei titoli di coda) cade nel baratro e si attende la degna fine di un’umanità che disgusta più dei mostri, ovvero le icone filmiche delle saghe dell’orrore (il loro museo: un omaggio bellissimo), chiuse nelle gabbie di The Cube, pronte ad essere resuscitate e manovrate a piacimento. Come fosse il capitolo finale di tutto il cinema horror.
