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TRAMA
L’adolescente Greg decide di trascorrere il suo ultimo anno di liceo cercando di evitare il più possibile rapporti sociali, nel tentativo di passare inosservato. Greg trascorre il suo tempo con l’amico Earl, con cui realizza bizzarri film amatoriali. Il suo progetto di rimanere anonimo viene compromesso da sua madre, che lo costringe a stringere amicizia con Rachel, sua compagna di classe affetta da leucemia.
RECENSIONI
Non è semplice confezionare un buon coming of age nel 2015, un racconto di formazione che si distingua; uno che unisca sensibilità e ironia, lacrime e trovate brillanti, e che sappia descrivere in maniera efficace quel “fantastico peggior” periodo della vita di tutti – l’adolescenza – restituendogli rilevanza universale. Non è semplice perché di esempi con cui confrontarsi ce ne sono tanti, fin troppi se volessimo restringere il cerchio al cinema indipendente americano, già copie di cloni di altri cloni. Anche nelle sottocategorie del genere, come quella che si concentra sull’esplosiva accoppiata gioventù e malattia, gli esempi, anche molto recenti, abbondano (50 e 50, Colpa delle stelle, L’amore che resta). Alfonso Gomez-Rejon ce la mette tutta per districarsi da questo groviglio e imprimere al suo film un’impronta distintiva e riconoscibile. La missione riesce a metà: il regista dimostra di avere brio nel girare e un occhio non banale per la composizione e l’inquadratura, ma la forma non basta a salvare del tutto un insieme di personaggi e situazioni mai veramente originali.
L’universo adolescenziale del film è composto da una serie di elementi onesti ma prevedibili: ricerca dell’identità individuale, amicizie infrante, desiderio di appartenenza ad un gruppo, ragazze da portare al ballo, dubbi sul futuro. Complica la situazione qualche stilema classico da cinema indie, in particolare il topos della famiglia disfunzionale, che seppur presentato in forme divertenti (la madre drama-queen e il padre sociopatico di Greg, la madre alcolizzata di Rachel) non può che inabissare ulteriormente qualsiasi pretesa di originalità. Se l’ambizione del film è poi quella di imporsi come oggetto di culto per ‘giovani sensibili’, la sceneggiatura (scritta da Jess Andrews, che adatta un suo romanzo) mette in bocca ai personaggi una serie di battute ad effetto, massime smart sulla vita, puntualizzazioni esistenziali e naif tanto brillanti quanto plastificate, dirette univocamente al target di riferimento del film: quella che potremmo definire una intellighenzia da Sundance. È proprio al Sundance, infatti, che il film si è aggiudicato il premio principale, eppure questa aura di non-eccezionalità sembra bollarlo come il meno convincente fra i recenti vincitori del concorso americano. Quel fantastico peggior anno della mia vita non possiede né la forza immaginifica di Re della terra selvaggia né il ritmo di Whiplash, e neppure la rilevanza di Fruitvale Station, nonostante quest’ultimo soffra di un’eguale dipendenza da motivi stilistici e narrativi a serio rischio di usura.
Già assistente di Martin Scorsese e Alejandro G. Iñárritu, Gomez-Rejon hipsterizza il film patinandolo con tinte pastello e movimenti di macchina geometrici (leggi alla voce: Wes Anderson?). Musiche ammiccanti, divertenti animazioni in stop-motion e abbondanti riferimenti cinematografici completano il quadro. Circa quest’ultimo punto, nonostante certi passaggi siano tratteggiati con una irritante pseudo-ingenuità (arthouse cinema for dummies: il protagonista che guarda il finale de I 400 colpi) e alcune trovate siano troppo debitrici di un’ispirazione alla Be Kind Rewind, il regista sembra anche riflettere su come in un’età in cui l’identità è incerta e il percorso che porta alla maturità impervio e oscuro, cinema (come arte del sogno) e vita (come sogno di qualcosa che verrà) possano compenetrarsi: posa e spontaneità, auto-fiction e vissuto si amalgamano nel dipinto di un confuso work-in-progress. Il film riesce anche a scansare con successo pericolosi cliché e cadute disastrose attorno ad un importante snodo narrativo: la rappresentazione della malattia. Non vi è infatti nulla di pornografico né ricattatorio nella descrizione del cancro di Rachel, personaggio quasi angelicato tratteggiato con apprezzabile asciuttezza di fondo.
Troppo calcolato per essere davvero efficace, Quel fantastico peggior anno della mia vita cadrà probabilmente nell’oblio sovraffollato di tanti indie americani che strepitano e gridano forte per gareggiare in sagacia, perdendo così l’originalità di una voce propria.
