
TRAMA
Città del Messico, anni 1940. Scampato ad un raid antidroga a New Orleans, Lee trascorre il suo tempo nei locali della capitale messicana, dove incontra e si invaghisce del giovane spacciatore Allerton.
RECENSIONI
Colpa e desiderio sono le prospettive da cui parte Luca Guadagnino per mettere in scena la parola (scomposta, frammentata, disarticolata) di William S. Burroughs in Queer. Desiderio di corpi caldi, traboccanti di eros; colpa per una sessualità ferina e randagia, oscena e mutante che invade le viscere, dissolvendo (in)certezze e colonizzando ogni atomo del corpo. Mexico City, anni ‘40, Lee (Daniel Craig) si muove sinuoso e umido nel suo completo di lino bianco alla ricerca di bramosia e concupiscenza. Le strade pullulano di vita, languore e passione. Esule e tossicodipendente, Lee, trascorre le giornate da flâneur e seducendo giovani ragazzotti alla ricerca di un gesto, un segno, che lo distragga dall’inquietudine. L’incontro con il bellissimo e indifferente Eugene (Drew Starkey) accende la fiamma della passione, e con essa l’ossessione e lo stordimento. Luca Guadagnino sembra cercare la meraviglia, lo stupore, la bellezza pittorica e l’epifania ad ogni inquadratura. La regia colta, raffinata, madida di simboli, metafore, riferimenti artistici e cinematografici si palesa in tutta la sua potenza espressiva. Messa a fuoco iperrealista, surrealista, espressionista. Il rosso della passione, il blu elettrico della notte, il viola del lutto, il giallo della gelosia. Una livrea di colori che determina gli umori e scandisce le psicologie. Il tempo, il suo scorrere inesorabile, le sue coordinate segrete, sono al centro della vicenda. Il cuore nero di una passione bruciante e lacerante, che non divampa mai veramente. Guadagnino, più di Burroughs, si concentra sul tormento amoroso e la sua drammatizzazione lirica e struggente. Lee è ossessionato da Eugene. Oggetto d’amore sfuggente e incasellabile (è gay? È etero? È una spia?) che nel continuo darsi e ritrarsi ingenera dipendenza e assoggettamento. Sogno, realtà, immaginazione si incastrano in questa ballata torbida e melò, dove eros si fonde con thanatos e l’oggetto d'amore - frantumandosi e ricomponendosi - lascia tracce nella memoria e nella reminiscenza. Queer non cerca il plauso facile, l’adesione totale, l’abbandono immediato. È sincopato, ellittico, discontinuo ritmicamente.
È altresì il film più intimo e “scoperto” di Luca Guadagnino, che chiede impegno e attenzione. Un’opera corposa e stratificata, politica e autobiografica: tanto per Burroughs (Lee è il suo alter ego) quanto per il regista (che lesse il libro da ragazzino, innamorandosene) che rivela la natura spuria dell’autore, tra farsa e tragedia, sberleffo e sgomento. Burroughs rende Lee - a differenza di Guadagnino che insegue l’échec, il fallimento, il romanticismo, la perdita amorosa e riflette sulla natura belluina (non corrisposta) dell’amore e del desiderio (omo)erotico: dedalo e intreccio di vasi comunicanti che irradiano sangue e fiele nello stesso momento - una figura cinica, classista, a tratti sgradevole, razzista (verso i messicani) omofoba essa stessa. La (ri)scrittura di Guadagnino, pur rispettando lo spirito del romanzo, si discosta dal senso di disperazione, solitudine e marginalizzazione legata all’omosessualità. La dimensione tragica e allucinata della pagina scritta lascia il posto a una riflessione decadente e romantica sull’identità e il desiderio. I corpi nudi e gli amplessi, per Burroughs, non sono liberatori poiché non affermano in alcun modo la propria individualità. Son pulsioni di morte che inchiodano ad un’esistenza di angoscia e sventura. Mentre per Guadagnino l’impossibilità ad essere felici è condizione ineluttabile, propria della deterrenza dell’amore, e non dell’omosessualità in sé. Nella seconda parte, ipnotica e lisergica, legata al viaggio che Lee e Eugene compiono alla ricerca della Yaga (radice dalle proprietà ipnagogiche, in grado di espandere i confini della coscienza) i corpi, obnubilati dagli effetti psicotropi della pianta, si abbandonano ad una danza dionisiaca e bacchica, intrecciandosi e saldandosi fino a completarsi, e penetrando - letteralmente - l’uno sotto la pelle dell’altro rivelano paure, segreti, verità oscure. È una derealizzazione psichica e fisica che, nella sequenza d’iniziazione, vede i cuori dei due amanti rigurgitati, ancora pulsanti di sangue e ossigeno. Strappati dal petto si dibattono tra la vita e la morte, tra carne e spirito. «Each man kills the thing he loves…» («Ogni uomo uccide ciò che ama», cantava Jeanne Moreau/Lysiane in Querelle di R.W. Fassbinder, cui il film è debitore: tanto Brest quanto Città del Messico sono ricostruite in teatri di posa che accentuano il carattere scenico e istrionico della rappresentazione), così Lee - ormai canuto e ottuagenario, ritornato sul luogo del delitto, ovvero dentro le stanze del piacere - dove godimento e dolore hanno convissuto per una vita intera - sgattaiolando lungo i sentieri della memoria, chiude il sipario ed esce di scena. Tutto ciò che poteva essere (e non è stato) resta un viaggio della mente e un sospiro del cuore.
