Drammatico

QUATTRO MINUTI

Titolo OriginaleVier Minuten
NazioneGermania
Anno Produzione2006
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Vecchia maestra di pianoforte, sadica lesbica e nazista, decide di dare lezioni d’umiltà e di coraggio a giovane detenuta assassina e ribelle. Avrà successo._x000D_

RECENSIONI

È quanto mai annosa, oltreché speciosa per non dire biecamente consolatoria, la poetica che vede nell'affermazione della personalità artistica – o sportiva – la via per il riscatto morale ed esistenziale di figure variamente derelitte, marginali, disastrate, solitarie. Qui ne abbiamo l'ennesimo esempio, tra i più infelici per teutonica pesantezza di tocco, inconsistenza di spessore drammatico, grossolanità pretenziosa dei caratteri – in ciò, alcuni dialoghi sfiorano il sublime – per di più malamente gonfiato da una sottotrama (la memoria della passata viltà dell'anziana protagonista) che vuole porsi come speculare termine di confronto alla vicenda della giovane promessa, ma lo fa nel modo più goffo e schematico (dunque falso, come evidenzia la scelta apparentemente anarchica della giovane star di contaminare Schumann con la “musica negra” odiata dalla vecchiaccia razzista). E poi omosessualità plumbea e con le svastiche al vento, sadismo carcerario da parte di guardie frustrate, alcolizzati incestuosi, detenute dall'occhio truce, puerpere vessate, sangue e lividi ed escoriazioni a iosa. Tutto quanto il cinema sa offrire quando non conosce sottigliezza e ironia, e gli manca l'attitudine a cogliere le sfumaure o a concentrare la forza tematica (ammesso che vi sia) nella forma espressiva.
E la potenza salvifica e rigeneratrice dell'arte? Neppure per un istante essa giunge fino a noi, fra gli strilli e le sciocche e noiose ostinazioni delle protagoniste. Pedestremente vediamo narrate le solite gabole, squadernati i soliti alibi per l'indifferenza al bene e al male comuni: la musica che assorbe completamente l'interprete sino a farne una specie di bizzarra invasata, in una scena cosiddetta “strappa applausi”, e che a noi ha strappato uno sbadiglio lungo quattro minuti; la dignità recuperata nell'orgoglio della propria esibizione; la gratitudine finalmente ammessa e manifestata alla vegliarda e tosta insegnante, pronta lei pure a riscattare l'intera sua vita investendola nella missione di salvataggio di un'anima incline all'autodistruzione; il trionfo della volontà a dispetto delle avversità della vita (alibi, quest'ultimo, particolarmente furfantesco e ripugnante).
E la fascinazione della musica, dov'è? Non certo nelle scarse note eseguite – con espressione un po' ebete e un po' stralunata – dalle protagoniste (oltretutto, sempre le stesse poche note, a mo' di refrain, il che conferma i dubbi di scarsa fantasia e scarso amore per la materia da parte del regista).
Dove la sofferenza e il tormento di vite bruciate, sprecate nell'ossessivo attaccamento a un passato che non passa, che non viene fatto passare?
Dove il miraggio di una resurrezione attraverso lo smarrimento di se stessi?
Dove il panico abbandono a un'arte la quale forse più d'ogni altra (cinema compreso) ci dice che c'è qualcosa che non può essere detto?
Non qui.