Drammatico

QUANDO LA NOTTE

NazioneItalia
Anno Produzione2011
Durata114'
Tratto dadall'omonimo romanzo di Cristina Comencini

TRAMA

Marina è in montagna, sola con il suo bambino. Il suo padrone di casa, Manfred, è un montanaro rude e silenzioso, che nasconde il trauma di un doppio abbandono.

RECENSIONI

Ennesimo capitolo di una filmografia, quella della Comencini, estremamente coerente: tema forte e problematico; personaggi emblematici; storia nella quale convergono dramma e tesi. L'ambizione non manca all'autrice che, sulla carta, non vola mai basso, salvo precipitare puntualmente alla resa dei conti. La questione all'ordine del giorno è la maternità problematica, l'amore genitoriale che non può dirsi scontato, la prova a cui una madre è sottoposta nell'accudire un figlio, una responsabilità enorme da gestire: il caso Franzoni aleggia (il black out mentale che segue a un fatto traumatico, buco nero che poi viene riempito alla fine con un flashback esplicativo quanto inutile - non rivela niente che non si fosse già intuito -) e dà forza al piano dell'attualità, altra costante dell'autrice, sempre molto accorta nella scelta delle questioni da trattare, ché fanno battage, discussione e gente al botteghino; tutto perfettamente legittimo, ma il problema sta nella sostanza che si va a introdurre in questo piano di lavoro e che, anche stavolta, difetta oltremodo.

Tratto da un romanzo della stessa regista, il film mette in scena un uomo e una donna che, incrociando il loro disagio e i loro problemi atavici - lei madre inadeguata, moglie infelice e succube; lui abbandonato dalla madre e dalla moglie, lontano dai figli, creatura torva e introversa -, scoprono le loro mancanze e, prima respingendosi, si incontrano infine sul terreno delle rispettive inadeguatezze; lo scenario è sottilmente metaforico, un luogo isolato ed aspro, la montagna, nel quale il rapporto si evolve secondo uno schematico alternarsi di alti e bassi.
La storia si dipana attraverso una scrittura che è al grado zero: la Pandolfi mimetizza la didascalia parlando al bambino, gli altri personaggi discorrono tra loro solo in apparenza perché di fatto si rivolgono al pubblico, decodificando i rapporti a suo beneficio e tenendolo costantemente informato di tutto. L'esile dramma, delineato all'inizio, affonda subito, fiaccato dall'inesistente elaborazione degli strombazzati elementi basici (la Comenicini ci fa letteralmente il disegnino: un omino e le due scritte Amore e Odio), da un doppio piano temporale ingiustificato, da una dialogistica disastrosa. La regia non è da meno: Timi e Pandolfi, attori di indiscusso valore, sono letteralmente allo sbando.
Le urla durante la proiezione veneziana erano inopportune almeno quanto la presenza del film in concorso.

Cristina Comencini porta in scena un suo romanzo dalle tematiche interessanti. Si parla del terremoto emotivo che scuote una donna nel momento in cui diventa madre. Siamo abituati alle mamme da spot che allattano felicemente in elegante tailleur, fanno i lavori di casa sculettando, lavorano con profitto per otto o più ore al giorno e trascorrono notti di passione infuocata e appagante. La protagonista Marina appartiene, invece, al vasto gruppo di donne che la televisione indaga solo nelle derive cronachistiche: quello di chi vive con difficoltà, sensi di colpa e conflitti il proprio ruolo materno. Con grande sensibilità la Comencini sceglie quindi una protagonista irrisolta, che trova nella magrezza spigolosa e nell’espressività misurata di Claudia Pandolfi un’interprete perfetta, e la colloca in un ambiente inconsueto e ostile, il piccolo paese di Macugnaga, ai piedi del Monte Rosa. Come spesso accade, per lo più al cinema, a sbloccare il black-out emotivo in cui stagna Marina, arriva uno sconosciuto, nel caso specifico la guida alpina Manfred (Filippo Timi, sempre esagerato e con un’espressività da film muto). L’incontro in punta di piedi sarà risolutivo per entrambi. Se la Comencini riesce bene a descrivere il disagio di essere genitore, le ansie, le paure, il cambiamento di equilibri che accompagnano la maternità, risulta invece meno incisiva nel momento in cui i sentimenti prendono il sopravvento, a causa anche di dialoghi che tradiscono la loro origine letteraria e di sviluppi più convenzionali. Superflua, invece, la parte finale, che nulla aggiunge e un po’ toglie, in quanto ridondante nel sottolineare l’evidenza. Picco negativo la sequenza, ormai scult, dell’incontro tra le due funivie innevate in cui si sfiorano, con tanto di fermo immagine, i due protagonisti. Una brutta immagine conclusiva, eccessivamente didascalica, per un film comunque dignitoso che affronta un tema inusuale con delicatezza e cercando, non sempre riuscendoci, di ammantare di cinema la voglia di rendersi comunicativo. Irritanti le risate e gli sfottò con cui il film è stato accolto al Festival di Venezia, alla proiezione per la stampa, da una platea con il fucile spianato.