TRAMA
Assaf porta una multa per conto della Protezione Animali. Insieme a lui c’è Dinka, la cagna apparentemente abbandonata che lo porterà d’istinto alla ricerca della sua padrona Tamar, una ragazzina scappata di casa per trovare il fratello eroinomane. Alternando gli avvenimenti passati (Tamar) con quelli presenti (Assaf), i due giovani saranno spinti verso lo stesso destino…
RECENSIONI
Un cane arbitra i destini di Tamar e Assaf, lega due realtà opposte in un percorso di formazione che rivisita il conosciuto orizzonte della crisi giovanile. Da una parte Tamar che cerca il fratello tossicodipendente scappato da casa e s’immerge tra gli artisti di strada, dall’altra Assaf, ragazzo comune che, dal dover portare una semplice multa, abbandona progressivamente la Gerusalemme raggiungendone i margini più abbietti. Una città invisibile, contesto di passaggio (la perenne corsa ne è la prova) e contenitore distante, incapace di comprendere un’opposizione generazionale che non sente la propria identità in un modello passato [1], ma lo riattraversa, superandolo verso un recupero dei valori apparentemente dimenticati dal presente. Nell’assidua ricerca di Tamar e Assaf vi è il profondo desiderio di ripristinare un senso di appartenenza affettiva che la controparte adulta ha allontanato. Si è persa la fiducia dei Grandi, ma non solo. L’altro Grande spauracchio è l’Istituzione, trasfigurata nell’iperbole del “regno” di Pesach che, raccattando e proteggendo i ragazzi di strada, li usa da copertura per il suo traffico di droga (mi permetto di mettere un’altra pulce nell’orecchio: guardate la bandiera a stelle e strisce troneggiare sulla scrivania dello spacciatore). E da questa prigione si vuole uscire per inseguire l’utopia dell’arte pura, non più merce da contrabbando e di consumo, ma piuttosto un ennesimo lucido tentativo d’unione.
Qualcuno con cui correre si pone i tanti interrogativi posti da Grossman, tenta di renderli trasparenti con uno stile easy e dinamico, in un digitale di sussultoria camera a mano. Al taglio da videoclip (alcune sequenze musicali ne siglano la ritmica del montaggio) partecipa una ricerca fotografica che richiama il fiabesco [2] (i colori si alternano dai registri cupi del palazzo di Pesach, al (tentato) lirismo dei mediterranei paesaggi israeliani).
Peccato che qualcosa sfugga, forse un respiro d’insieme, un abbraccio complessivo. L’operazione di Davidoff palpita di forte sensibilità, ma non sempre riesce a tenere in tensione i vari tasselli del racconto, spesso non coinvolgenti e precipitanti in una lassa amatorialità. Manca soprattutto l’amalgama tra il voler essere spontaneo e il tratteggiare la natura dei personaggi, poco convincenti dal lato umano (non mi riferisco ovviamente a questioni morali). Delizioso raramente, apatico nella stragrande dei casi. Se poi ci mettiamo un doppiaggio con tanto di inflazioni romanesche, non lo aiutiamo di certo. L’impegno è comunque premiato con una sufficienza (molto vacillante).
[1]Niente utopica epopea anni 60-70. Anzi a cercare spazio è la sua negazione. Il ripercorrere certi fattori (vita borderline, consumo di droga, distacco dalla società) funziona alla narrazione come percorso di caduta da cui fuoriuscire per ricostruirsi una vita normale.
[2] In particolare i cattivi rimandano a figure della tradizione altrettanto cattivi (Pesach è l’orco, la madre di questo la strega).