TRAMA
Parigi, inizio anni Settanta. Gilles è un giovane liceale preso dall’effervescenza politica e creatrice del suo tempo. Come i suoi compagni, esita tra un impegno radicale e delle aspirazioni più personali. Passando da relazioni amorose a rivelazioni artistiche, in un viaggio che attraverserà l’Italia e finirà a Londra, Gilles e i suoi amici dovranno fare scelte decisive per trovare se stessi in un’epoca tumultuosa.
RECENSIONI
Il percorso di Assayas oscilla negli ultimi anni tra opere centrate sulla mondializzazione e le derive del Capitalismo (Demonlover, Clean, Boarding Gate, lo stesso Carlos, per molti versi) e altre consacrate, in apparenza, a un più forte intimismo (ma L’heure d’été - cui doveva seguire Le temps de revenir, mai realizzato -, dietro quella tenace riflessione familiare, conteneva una considerazione molto acuta sull’implacabile trasformazione che i tempi moderni ci stanno imponendo). Après Mai riporta il regista da un lato sul piano dell’opera personale, con chiari riferimenti autobiografici, e dall’altro a un’esplorazione del passato (cfr. Carlos), visto comunque come cartina di tornasole per comprendere i tempi presenti di rivoluzioni dormienti, orfani di utopie. Quando si parla di passato ci si riferisce anche alle opere dell’autore, L’eau froide, soprattutto (lì l’esplosione della ribellione adolescenziale come motivo, in Après Mai come segno dei tempi, arricchito dai motivi politici, le suggestioni esotiche, la filosofia di vita, le pulsioni creative - Assayas: «Volevo essere letterale») e Désordre, dichiaratamente citato (l’azione sovversiva).
Tutto è quello che vogliamo è forse lo slogan che meglio spiega il fervore, la tensione, l'entusiasmo e i sogni di una generazione: la gioventù messa in scena, di cui non si nascondono le contraddizioni (l'estrazione borghese con la quale si fanno i conti - o no -), è dominata da passioni fortissime quanto effimere, estreme come gli entusiasmi della giovinezza (la volontà di cambiare il mondo, l'illusione di non cambiare mai idea), e le traduce in pratica politica, le applica nell'arte, le vive nell'impegno. Un'era intrinsecamente ideologicizzata (dove risiede la rivoluzione? Nella solitudine dell'arte o nel lavoro vero?) in cui il cinema stesso diventa dogmatico ed è chiamato a militare (un cinema di rivoluzione deve avere uno stile rivoluzionario?: la diatriba sull'arte che deve cambiare il sistema, ma che per farlo deve rivolgersi al popolo e non solo agli esteti) che Assayas vuole rappresentare con il suo consueto sguardo che distilla nell'atmosfera l'essenza di una situazione, rimanendo ora ai margini ora dentro un affresco che eviti facili agiografie: di qui un lavoro certosino di ricostruzione di un universo epocale che vuole essere restituito nella sua complessità, nel suo désordre e comunque non solo nei suoi tratti più riconoscibili (il film è attentissimo al dettaglio), ma soprattutto nel suo spirito vitale, per come è stato vissuto, per quello che ha determinato in un'intera generazione. E il regista lo fa raccontando, osservando, mettendosi in scena (il protagonista, lo studente Gilles, pittore poi folgorato sulla via di Damasco dalla Settima Arte, che è motore della narrazione), strizzando l'occhio al cinema francese dell'epoca, permettendosi qualche sottolineata enfaticità, da leggersi sempre nella chiave di un omaggio (la ragazza si allontana e la mdp s'invola per un'inquadratura dall'alto. Musica, dissolvenza).
Après Mai, dietro il frammentario rievocare un'epoca e una giovinezza - in un romanzo collettivo che naviga tra dissenso militante, controcultura e rivoluzione sessuale - dietro questa corretta (forse fin troppo) ricostruzione di un cosmo di passioni personali (la musica [1] al solito domina e si esprime con brani pressoché completi, rifuggendosi la pratica contemporanea del frammento, OA: «la musica al cinema deve funzionare come una sorta di libera appropriazione») conserva però i lampi dell'autore, il talento nel penetrare le situazioni, nel restituirne gli umori, facendo parlare la macchina da presa, complice il fedele Eric Gautier, direttore della fotografia tra i più grandi: la scena della festa - i falò in giardino -, che si specchia volutamente in quella del tutto simile de L'eau froide, e che si chiude con il suicidio di Laure inseguita dalle fiamme del delirio, ne è ennesimo mirabile esempio.
[1] I brani della colonna sonora contano, tra gli altri, Terrapin di Syd Barrett, Know di Nick Drake, Air della Incredible String Band, Sunrise of the Third System dei Tangerine Dream, Abba Zaba di Captain Beefheart, Why we are sleeping dei Soft Machine, Decadence di Kevin Ayers etc.
E trova finalmente una decodifica anche quel particolare modo di guardare agli ambienti, quel continuo alternare sguardi dall'esterno e dall'interno che ha sempre contraddistinto l'opera di Assayas, decodifica insita in quel frammento olandese, la bellissima scena ambientata nel museo di Harlem (OA: «il virtuosismo del tratto di Hals, della sua pennellata, mi affascinano fin dall'adolescenza [...] La pittura olandese, alla quale mi sono molto interessato quando ero studente, ha nutrito la mia pratica cinematografica. Gli interni/esterni di Peter de Hooch [foto] e il suo senso dello spazio così unico... Difficile non pensarci quando si costruiscono le inquadrature. Riflettendoci ora, non è probabilmente fortuito che la scoperta della pittura classica olandese sia per me contemporanea all'abbandono della pittura in favore del cinema)».
In questi anni l'autore ci ha regalato opere forse migliori: che abbia ricevuto un premio a Venezia per questo film (un contentino anche inopportuno: alla sceneggiatura) dice dei ritardi con cui i Festival si accorgono di maestri indiscutibili (Assayas gira dagli anni 80), ma fa senz'altro piacere un riconoscimento per un lavoro così sincero, che racconta di quegli anni con tenerezza autentica, senza patetismi o nostalgia, e che si chiude, come Irma Vep, con un lampo di incommensurabile bellezza, una sequenza, in cui, più delle altre, si riflette l'autore: il film sperimentale, in una piccola sala londinese, non si rivela altro se non una visione primaria, l'allucinazione del primo amore che ritorna. Assayas con un solo gesto, con un'intuizione che tutto sintetizza, dice scopertamente e con semplicità che, al di là di ogni considerazione estetica e dei furori avanguardistici, il cinema, come allora, gli fa ancora battere il cuore.
P.S. - Mi viene in mente che un'altra recente autobiografia che racconta la giovinezza dell'autore nel 68 e negli anni a seguire, quella teatrale di Tom Stoppard, è dominata dalla musica come strumento rivoluzionario, nel testo (i dialoghi che citano cripticamente le liriche dei brani dell'epoca) e in una colonna sonora (puntigliosamente prevista dal drammaturgo) sia diegetica (i personaggi che ascoltano i dischi) sia extradiegetica (l'accompagnamento dei cambi di scena con tanto di proiezione delle note di copertina dei 33 giri). Aleggia su tutto, come una misteriosa divinità, il fantasma di (guarda un po') Syd Barrett. Parlo di Rock'n'roll (2006).
Non riesco a ricordare gli anni Sessanta, dunque dovevo esserci.