BIENNALE CHANNEL, Drammatico, Recensione

BALLOON

Titolo OriginaleQiqiu
NazioneCina
Anno Produzione2019
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Sullo sfondo delle praterie tibetane, Darje e Drolkar conducono una vita semplice e tranquilla insieme ai tre figli maschi e al nonno. Un preservativo scatena momenti di imbarazzo e un autentico dilemma, mettendo a repentaglio l’armonia famigliare. Cosa è più importante nel cerchio della vita e della morte, l’anima o la realtà?

RECENSIONI

In sanscrito il termine samsara indica il ciclo ripetuto di vita, morte e rinascita. Al termine del nostro passaggio materiale transitorio, la mente sottile passa attraverso lo stato intermedio del Bardo prima di incarnarsi ancora, seguendo la legge suprema di causa/effetto, in un nuovo corpo fisico. Darje (interpretato da Jinpa, figura ricorrente nel cinema di Pema Tseden) e Drolkar (Sonam Wangmo), nel loro villaggio sperduto tra le praterie tibetane, scandiscono l’esistenza del nucleo familiare (composto dai tre figli maschi e dal nonno) sul ciglio di un sottile crinale: da un lato, il legame con la generazione precedente si stringe attorno ai corpi dei nuovi venuti (il figlio maggiore della coppia, in particolare, viene identificato come l’incarnazione della nonna scomparsa), confermando la continuità con la tradizione buddhista; all’opposto, la morsa culturale della Repubblica Popolare Cinese e delle sue ferree direttive sul controllo delle nascite ha imposto comportamenti che modificano radicalmente il tessuto originario del microcosmo tibetano. Il titolo stesso del film, in maniera diretta, allude al doloroso processo di passaggio: i figli più giovani rubano i preservativi dei genitori per usarli come palloncini e, emblematicamente, l’opera di Pema Tseden si apre con una soggettiva diafana dei bambini che osservano il paesaggio attraverso la superficie traslucida dei contraccettivi. Ciò che incombe, insomma, non è del tutto conosciuto; così come non sono note le conseguenze della trasformazione in atto. Tra questi due universi distanti e inconciliabili, s’inserisce la figura della sorella di Drolkar, una monaca che nasconde un indicibile e doloroso trascorso che, in qualche maniera, preconizza l’imminente destino di tutta la famiglia.
Il cineasta/scrittore tibetano, rispetto alle due opere precedenti Tharlo (2015) e Jinpa (2018), muove il registro stilistico altrove: al posto dell’estrema dilatazione enfatizzata dalla prodigiosa fissità dei quadri che caratterizzava i due film succitati, in Qiqiu lo sguardo della macchina da presa contempla con inedita fluidità un intreccio che, ancora una volta, resta sospeso tra dimensione onirica e esistenza immanente, tra l’eternità e il transitorio. È proprio la condizione della fine o, ancora più precisamente, l’esperienza della premorte, che lo spettatore sperimenta nella dimensione della perdita: la morte del nonno, che getta una nuova responsabilità sul futuro possibile nascituro, destinato a diventare veicolo dell’anima sospesa dalla quale il protagonista non riesce a staccarsi (come ci suggerisce il controcanto del sogno, vera esperienza rivelatrice in tutta l’opera di Tseden). La perdita di un universo valoriale e spirituale insieme, che getta un intero popolo in una terra di mezzo impercorribile e priva di ogni riferimento. La perdita che le figure femminili affrontano nel processo di rielaborazione dei lutti, pulsione autentica verso la realizzazione del non – attacamento. Perché questo solo conta, evidentemente, per il cineasta tibetano: la capacità di lasciare andare.