TRAMA
Copenaghen. Spacciatore di quartiere fiancheggiato dallo sciroccato Tonny, Frank vende e consuma stupefacenti con risultati non propriamente esaltanti: vive in una squallida camera d’albergo e ha una relazione pseudosentimentale con Vic, giovane entraîneuse affezionatissima al cane King. I suoi traffici sembrano però fare il salto di qualità quando si presenta un vecchio compagno di cella che, disposto a pagare profumatamente, gli chiede un paio d’etti di sugar brown per il giorno dopo. Frank riesce a procurarsi l’eroina in fretta e furia grazie a Milo, suo fornitore ufficiale, ma al momento della consegna l’affare va a rotoli e la roba finisce nel lago. Milo non vuole sentire ragioni e gli sguinzaglia dietro Radovan, un mastino che non va tanto per il sottile: per Frank sono guai, o meglio problemi.
RECENSIONI
Primo lungometraggio del ventiseienne regista danese Nicolas Winding Refn, Pusher nasce in circostanze a dir poco atipiche: al giovane e inesperto Nicolas viene offerto un milione di dollari per realizzare un lungometraggio proprio nel momento in cui, tornato in Danimarca dagli Stati Uniti (dove era stato espulso dalla American Academy of Dramatic Arts per intemperanze comportamentali), ha deciso di frequentare la scuola di cinema superando l’esame di ammissione. Incerto sul da farsi, Refn segue il consiglio dello zio (a cui il film è dedicato) e si getta a capofitto nell’impresa, confidando nel fatto che imparerà a girare sul set. Per quanto temeraria, la scelta si rivela tutt’altro che azzardata o superiore alle sue forze: ne scaturisce Pusher, pulp movie acerbo e derivativo quanto si vuole ma innervato da un’irruenza audiovisiva e da una progressione drammatica di indubbia impetuosità. Introdotto dalla presentazione didascalica dei cinque personaggi principali (Frank, Vic, Tonny, Milo, Radovan), scandito da sette capitoli giornalieri (da lunedì a domenica) e traboccante cinema americano degli anni ’70 e ’90 (da Mean Streets a Pulp Fiction passando per Bad Lieutenant e squarci lynchani nel finale), Pusher è un film sporcato da un gusto trash non privo di marchi sarcastici (il personaggio di Tonny, vera e propria mina vagante con la scritta RESPECT tatuata sul cranio) e da una poetica della violenza né grafica né iperrealistica ma tumultuosa e soffocata al tempo stesso (gli esagitati movimenti di macchina assorbono le esplosioni di brutalità e i picchi di ferocia sono ora occultati da elementi scenici quali il bancone di un pub ora oscurati da improvvisi cortocircuiti che sprofondano le immagini nell’oscurità).
Non tutto il bagaglio cinematografico risulta distribuito a dovere, certo: l’emulazione di Ferrara è ancora troppo sensibile e in alcuni momenti, come negli spostamenti in macchina del sempre più inguaiato Frank (Kim Bodnia, un magnete), tende a farsi ricalco letterale. Inoltre lo sguardo del giovane Refn occupa una sola posizione ottica: la camera a mano. Ciononostante i personaggi possiedono una loro capienza psicologica e le situazioni producono tensione sfruttando le peculiarità dei caratteri (la sbruffoneria di Tonny, la minacciosa cordialità di Milo) nonché le particolarità degli spazi attraversati (il tuffo nel lago al termine della fuga dai poliziotti, l’ultimo smercio di droga in discoteca). Conformemente a tale approccio basico e elementare Copenhagen non assurge, come si suol dire, a protagonista del film ma resta sfondo grigio e indistinto, contenitore anonimo di vicende che potrebbero svolgersi in qualsiasi periferia fornita di droga e relativi spacciatori/consumatori. Ovunque. Tirate e tambureggianti, le musiche di Peter Peter irrobustiscono a dovere l’incedere audiovisivo del primo Pusher, cosceneggiato dallo stesso Refn e da Jens Dahl (che sparirà nei capitoli successivi) e fotografato da Morten Søborg (che invece curerà la fotografia dell’intera trilogia). È tutta la recensione che smanio per citare il bellissimo e pressoché dimenticato Lo spacciatore (Light Sleeper, 1991) di Paul Schrader, film che presenta affinità con Pusher solo a un livello superficialmente tematico e approssimativamente cronologico. Ecco fatto.
L’esordio di Refn è diventato un piccolo film di culto (non in Italia), cui il regista ha dato due seguiti. Un talento non indifferente il suo: se la trama presenta poco di nuovo (il solito circolo vizioso in cui finisce il malavitoso), i modi di raccontarla e filmarla sono inediti e sorprendenti. Camera in spalla, luci naturalistiche (non deve trarre in inganno l’incipit “pulp-fumettistico” né il vezzo di indicare il giorno della settimana), neon-realismo spezzato da improvvise accelerazioni con chitarra hard rock: Refn pedina zavattinianamente i suoi spacciatori, pretende una recitazione spontanea, ci tiene a lasciare ai margini il “business” che tutti i film criminali rendono protagonista e osserva i suoi personaggi nel cazzeggio, fra (dialoghi di) sesso, disco e ristoranti. Tutto naturale, sguardo amorale, senza elegia o condanna. Tutto anticonvenzionale: anche il killer al soldo del russo, in film del genere sempre aguzzino spietato, qui si confida con Frank perché è stufo del mestiere e vorrebbe aprire un ristorante. Non per questo Refn nega che l’iter della parabola criminale si macchi come sempre di sangue: quando esplode la violenza, se possibile, è ancora più brutale e (perché) inattesa, ma acquista una veste necessaria del/nel “mestiere”. Lo stesso cul de sac in cui finisce lo sfortunato protagonista, con sogno di fuga e colpo di scena “romantico” (che Refn lascia “aperto” per vezzo autorale), segue il noir classico ma è completamente diverso: senza dire esplicitamente nulla, il regista fa intuire che Frank è innamorato della prostituta ma, paradossalmente, non riesce a superare che venda il proprio corpo per soldi.