Criminale, Grottesco, Netflix, Recensione

PULP FICTION

TRAMA

Due killer sono ingaggiati per recuperare una valigetta. Sono al soldo di un afroamericano che tiene in pugno anche un pugile, cui ordina di perdere il prossimo incontro e che, invece, fugge dopo aver vinto il match.

RECENSIONI

È con questa pellicola instant-cult, premiata a Cannes con la Palma d’Oro, che esplode il fenomeno Tarantino, per quanto reiteri il cinema (e le maestranze) di Le Iene fra gangster, violenza grottesca, spassosa vena paradossale ed episodi non disposti cronologicamente: gli incastri di flashback, però, sono molto più complessi e sottilmente (in tutti i sensi) ricollegati, ed è più generosa la galleria di personaggi eccessivi e situazioni allucinanti. La rivoluzione sta nel citare, copiare, trasformare una produzione (cinematografica, letteraria, televisiva) di serie B e rielaborarla in un calderone di fonti eccitante ed immaginifico che esalta la cultura del “basso”. Innamorato di Godard (la scena del ballo di un John Travolta ingrassato cita Bande à Part), Tarantino solo apparentemente ne ripropone la strategia estetica di asintatticità o di studio del rapporto fra parola e immagine e fra cinema/mass media: in realtà, da cui l’impronta inequivocabilmente postmoderna, il suo è un elaborato divertissement a-politico, un tripudio di superfici “mainstream-underground” svuotate di contenuto e a-critiche, un frullato di film di samurai e noir, di La Mala Ordina di Fernando Di Leo (i personaggi di Travolta e Jackson) e Un Bacio e una Pistola (il pugile Butch come il Mike Hammer di Aldrich), di Roger Corman e blaxploitation, di Un Tranquillo Weekend di Paura (la scena dello stupro) e riviste hard-boiled anni cinquanta/sessanta (da cui l’inconsueto equilibrio fra improbabili coincidenze crudeli e credibilità non demenziale), di “look” da technicolor anni cinquanta e soundtrack (senza composizioni ad hoc) eclettico di surf music, beat, soul e ballate classiche. La prima parte è appesantita dagli straripanti dialoghi alla Elmore Leonard ma, non appena si scorgono le coordinate dell’impalcatura drammaturgica/figurativa si resta stregati, complice l’accelerazione progressiva del ritmo e varie scene debordanti indimenticabili, girate con una grammatica che omaggia e rompe la tradizione (l’uso della steadycam, dei Primi Piani leoniani, della tavolozza dei colori alla Frank Tashlin…). Un’opera tanto sopravvalutata (perché tutte le sue “novità” sono, in realtà, affette da cleptomania) quanto incontrovertibilmente influente: in un momento in cui tutto era stato detto e visto, Tarantino destruttura il racconto, depotenzia nel nonsense la violenza, rende iconiche scene passate in sordina in pellicole oscure, rompe schemi produttivi consolidati (ha fatto della Miramax una potenza del cinema indipendente), rende accettabile lo splatter e, soprattutto, non cerca più ispirazione nella realtà ma nelle immagini che la restituiscono nella cultura di massa.

Avvertenza: qui non si parlerà, quasi, dell'oggetto Pulp Fiction, già letto e analizzato in modo magistrale e esauriente da Niccolò Rangoni Machiavelli, bensì del trentennio trascorso, come ha cambiato il film, la sua percezione e fruizione e come ha cambiato noi.

Cosa resta di un cult movie estinte condizioni e ragioni di un culto? Tutto cambia in trent'anni. Muta l'aura dell'autore, la sua immagine pubblica. Quentin Tarantino a metà nineties era il non plus ultra della coolness nerd e cinefila e si aggirava per i festival con occhiali scuri, completo da "iena" e la sua faccia da hardboiled, era l'enfant terrible che rivoluzionava a colpi di forbice e cucito postmoderni il linguaggio cinematografico. Passati decenni, generazioni e sensibilità Tarantino è divenuto una figura anacronistica, idiosincratica, fuori sincro con lo spirito del tempo, in perenne polemica con vere e presunte cancel culture e "woke" (che di rimando non lo amano), preso in giro per feticismi podologici e denunciato per apologia di sionismo a causa del suo sostegno militante all'esercito e allo stato israeliano, dove vive. Può non essere un caso che, in questa nuova posizione marginale e sorpassata non da paria ma sicuramente da underdog culturale, abbia scritto e diretto il suo film più sentito, commovente e forse migliore, C'era una volta a Hollywood.

Il tempo ha modificato l'aura del cinema tarantiniano almeno quanto lo smalto del suo autore. Dobbiamo alla fenomenologia l'intuizione fondamentale per cui un oggetto di indagine non esiste nello spazio fisico che occupa e neppure nell'impressione di retina e costruzione di sinapsi dentro il suo osservatore bensì in un punto mediano dove i due idealmente si incontrano. Riguardare Pulp Fiction trent'anni dopo è un'esperienza estremamente interessante perché non troviamo quasi nulla di ciò che ricordavamo bensì cose tutte nuove. Tanto - battute cult, iconografia eccetera - è passato al mito o al meme, espunto dalla struttura del film per diventare oggetto culturale con vita propria. Il thrilling (per certi lo scandalo) degli allegri massacri, del sangue che schizza e satura il quadro e appunto la coolness, la percezione di cutting edge spariscono in favore di un'esperienza di visione che ricorda il musical: Vincent Minelli o, ancora meglio, Stanley Donen per il surplus di stilizzazione autocosciente e metafilmica. Innanzitutto la possibilità del puro stile è cosa da anni Novanta, da (illusione di) fine della Storia. Pulp Fiction come molto cinema dell'epoca appare ora pura evasione, divertissement, ribbon of dream - altro che ultraviolenza. (È puro stile ma è anche vero, credibile grazie alla qualità suprema dei dialoghi e della sceneggiatura - è il caso di ricordarlo sempre). È musical anche, ovviamente, per una delle sue specifiche più dirompenti: la centralità e conseguente iconicità delle scene con musica extradiegetica. Il lavoro di montaggio di una colonna sonora accuratissima con sequenze fatte per piantarsi nell'immaginario collettivo è una versione pop americana della lezione godardiana e genera dei veri propri "numeri musicali" (su tutti, il ballo scatenato di John Travolta e Uma Thurman su Chuck Berry al Jack Rabbit's Slim) che si stagliano sullo sfondo. Anche la mise en abyme, cifra stilistica anni '90, virtuosismo portato da Tarantino nella forma di scrittura più raffinata, è divenuta sempre più - come i virtuosismi in generale - uno stratagemma che dice esercizio ginnico, gioco masturbatorio con lo spettatore, che puzza mascolinità tossica e soprattutto dice vecchio. Basti pensare a come il cinema di Christopher Nolan, restando sempre se stesso, sia progressivamente divenuto indigesto. Allora invece, in periodo postmoderno legittimo, la mise en abyme poteva essere leggera, brillante, divertente, scanzonata. Poi, caduta la patina cool, emerge più chiara la sinopia dei riferimenti culturali tarantiniani: non solo ovviamente la cinefilia matta e disperatissima e trasversale con penchant per la serie Z; anche comics e romanzacci - pulp fiction, appunto. I personaggi (gangster, femme fatale, spacciatori, boss, pugili) hanno non solo tipi ma psicologie infantili, sono buffi e comici, impossibili da prendere sul serio. Negli stessi anni i gangster infantili e romantici di Wong Kar-Wai erano ugualmente buffi, stralunati, poco tremendi eppure mantenevano una loro toccante gravitas.

E poi viene l'America. Nel 1994 gli USA, vinta la guerra fredda, erano all'apogeo storico. Trent'anni più tardi sono un impero in dismissione che si dibatte per mantenere un ruolo geopolitico dominante che non possono più permettersi e conseguentemente una nazione sempre più marginale, insulare, datata nelle sue produzioni culturali. Nel 1994 gli Stati Uniti sembravano il mondo. Tarantino - al netto di tutte le influenze europee più o meno carsiche, Godard prima di tutti - girava un film  dall'immaginario all american come Pulp Fiction, operazione che ora risulterebbe ridicola e pateticamente sciovinista o nella migliore ipotesi senescente e esausta (vedi Bradley Cooper, l'ultimo Eastwood, Chazelle). Tutto, in Pulp Fiction, è a stelle e strisce dagli aspetti immediati (fast food motel burger elvis frappè auto) ai rimandi pittorici (Hopper, l'iperrealismo) fino al substrato ideologico pop art per la deliberata bidimensionalità, la centralità dell'oggetto commerciale, il rigetto della profondità. La rivoluzione nella percezione degli USA investe il cinema di ieri trasformandolo, appunto, da potenziale documento a oggetto nostalgico, evasivo: Pulp Fiction entra nella stessa categoria di capolavori del passato, di un passato il cui passaggio è pienamente compiuto, come Colazione da Tiffany o Cantando sotto la pioggia.

Pulp Fiction considerato a distanza è ancora un film perfetto - nel senso di perfettamente architettato, scritto, girato, senza un tempo morto o un calo di intelligenza. E, in generale, se qualcosa non è invecchiato un giorno, in Pulp Fiction, è l'umorismo dei dialoghi brillanti e delle situazioni assurde. Eppure cambia scaffale, entra nella categoria trademark Stephan Zweig del "mondo di ieri". Se l'ideologia di un dato momento storico è l'acqua nella quale nuotano i film come tutti gli oggetti culturali, la falda di Pulp Fiction si è esaurita come è superato il linguaggio cinematografico con cui è scritto. Pulp Fiction ora sarebbe impossibile, eventuali epigoni sarebbero ridicoli. Può invece essere rivisto e goduto come jouissance pura, come un momento di evasione, come una cosa divertente che chissà se rifaremo mai.