TRAMA
Un ragazzo – il dio dei gabinetti – ed un gruppo di amici girano il mondo in apparente degeneraizone alla ricerca di una cura per il cancro. Da Hong Kong a New York al Tibet unico filo conduttore il dolore.
RECENSIONI
Fruit Chan che alla 58° mostra del cinema di Venezia aveva affascinato per lo stile fiammeggiante ed esagerato di "Hong Kong/Hollywood" dopo dodici mesi si presenta con un'opera in digitale dalla durata faticosa e dalle pretese pedagogiche francamente stucchevoli. Dall'est del mondo, India, Cina fino all'opulento ovest di New York si intrecciano le vicende, gli incontri le mille difficoltà di un gruppo di giovani alla ricerca di una cura contro il cancro, di santoni miracolosi, acque taumaturgiche, frutti dell'eterna giovinezza, preparati galenici rarissimi: il dolore sembra essere l'evento che cuce assieme queste vite come pure quelle che di striscio si intravedono. Dai bagni pubblici hongkonghesi, dove tutti gli uomini sono uguali, luogo in cui si raccolgono gli scarti corporali ma dove pure si fanno nascere e si abbandonano bambini, fino all'estrema ed asociale solitudine della megalopoli, sono gli uomini e la conoscenza d'essi come dell'ambiente ad essere appiglio alla vita. L'esempio che si offre ad ogni evento anche atmosferico (la neve ma pure il bagno nel Gange) permette la curiosità ed il desiderio che paiono i motori propulsivi di giovani vite che tentano di sfuggire alla morte e/o di portare sollievo a chi vi è prossimo. Fruit Chan esagera in ogni direzione, dal numero di personaggi ed incontri, alle vicende che narra per brani: esasperato e decadente ma con una morale sulla vita che traspare pure in poche fulgide inquadrature/sequenze, la neve che si alza da terra, le case a ridosso del Gange, per smania di dire troppo, di affastellare in una summa complessiva, "Public Toilet" perde inevitabilmente di vigore ma rimane, imperfetto e prostrante, crudissimo.

Plop
Una delle funzioni più democratiche del corpo umano diventa protagonista del film di Fruit Chan, incentrato sul legame indissolubile tra il corpo e l'ambiente che lo circonda. Se siamo ciò che mangiamo, sembrerebbe suggerire il lungometraggio, non possiamo che essere anche ciò che espelliamo. Nonostante l'interesse suscitato dal tema, il riconoscimento speciale della giuria ottenuto a Venezia, (in cui il film concorreva nella sezione "Controcorrente"), risulta assai immeritato. C'è il peggio del cinema orientale che suscita clamori ai festival: qualche guizzo nell'utilizzo del digitale a rendere sopportabili le ormai logore sgranature, una fotografia brutta e abbruttita da un uso delle luci che si vorrebbe naturalistico, interminabili piani sequenza, macchina da presa a mano e una sceneggiatura sgangherata e approssimativa. In alcuni momenti sembra quasi di assistere ad un filmino girato in vacanza a cui si è pensato di dare una parvenza cinematografica. I personaggi vagano in cerca di redenzione passando per Hong Kong, Pechino, l'India, New York e Roma (davvero pessima la telefonata al cellulare all'interno del Colosseo per far capire che l'azione si svolge nella città capitolina). Divertente l'idea di trasformare un bagno pubblico in un luogo conviviale in cui l'evacuazione e le chiacchiere diventano un binomio inscindibile in grado di raccontare storie, ma insufficiente a riempire centodue lunghissimi minuti in cui è il tedio il vero protagonista. Unico colpo di scena, la lotta tra un polipo e alcuni granchi in un acquario.
