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TRAMA
A causa di un’inutile sbruffonata, il sergente Lo viene attirato in un vicolo e pestato da quattro teppisti. Quando si risveglia non ha più la pistola d’ordinanza: per evitare che i superiori ne vengano a conoscenza, dovrà recuperarla prima che la notte finisca.
RECENSIONI
Autore di una filmografia letteralmente sbalorditiva per numero di titoli (più di 40 in meno di trent’anni di attività) e per varietà di generi (commedie, mélo, horror, action, fantasy, thriller e noir), Johnnie To è senza ombra di dubbio una delle figure artistiche più significative del cinema contemporaneo. Oltre ad aver girato personalmente pellicole che hanno riscritto i parametri estetici dell’action movie, a metà degli anni Novanta il cineasta hongkonghese ha creato insieme a Wai Ka Fai, regista e sceneggiatore, la casa di produzione Milkyway Image, vera e propria officina di sperimentazione e ricerca all’interno del sistema dei generi. In un progetto estetico così imponente ed in una filmografia tanto ricca è ovvio che non tutti i titoli abbiano la stessa qualità, alcune pellicole sono concepite per mero intrattenimento spettacolare (sempre di buon livello, comunque) ed altre sfruttano formule di sicuro successo commerciale. Ma in questo panorama estremamente vario e frastagliato svettano alcuni action, thriller e noir semplicemente entusiasmanti come A Hero Never Dies, Running Out of Time, The Mission, Breaking News, il dittico recente Election/Election 2 e, appunto, PTU. Scritto e realizzato frammentariamente (To lo ha girato negli intervalli di tempo tra una commedia e un’altra, impiegando addirittura più di due anni per concluderlo), PTU è uno dei capolavori del cineasta hongkonghese e uno dei noir metropolitani più stupefacenti degli ultimi dieci anni. Notturno, teorico, sorprendente, il film mette in scena una vicenda apparentemente elementare: il sergente Lo (Lam Suet) della Divisione Anticrimine deve recuperare la pistola perduta durante un’aggressione di cui è stato vittima. Come aiutante ha il sergente Ho (Simon Yam) della PTU (Police Tactical Unit) – l’amicizia tra i due sottoufficiali è controllatissimo sottotesto - e come oppositore l’ispettrice Leigh (Ruby Wong) del CID (Criminal Investigation Department). La situazione si complica però a causa di una guerra tra clan rivali che si interseca casualmente con la vicenda di Lo. Ad ingarbugliare ulteriormente le cose provvedono infine tutta una serie di errori, equivoci e coincidenze che trasformano la ricerca dell’arma in un vero e proprio viaggio al termine della notte. Fatalità è il concetto chiave, nel duplice senso di caso e destino: gli eventi fortuiti (la scomparsa della pistola, l’omicidio di Ponytail, lo scambio dei cellulari, l’arrivo inopinato della banda di gangster nello showdown finale) si susseguono ininterrottamente fino a comporre un mosaico dal sapore fatale, in cui il gratuito trasfigura nel necessario. Infaticabile artefice di questo disegno è la macchina da presa, implacabile nel tracciare traiettorie visive di matematica precisione: sempre in anticipo di qualche secondo sullo scoppio dell’azione, la mdp lascia che gli eventi “accadano” di fronte al suo sguardo. Il profilmico sublima in teatro dell’inevitabile. Orchestrato da un montaggio semplicemente perfetto, in questo senso PTU incarna compiutamente – cinematograficamente – l’idea di determinismo così tipica e indispensabile per il film noir. Per trovare un esempio altrettanto stringente occorre risalire trent’anni indietro, al capo d’opera di Jean-Pierre Melville Le cercle rouge (I senza nome, 1970). Fatalità cinematografica inverata dunque attraverso le posizioni e i movimenti della macchina da presa. Ma anche per mezzo della luce. Se The Mission (1999) era un film di pura plasticità, PTU è il film della luminescenza: fredda, la luce artificiale biancheggia sulle superfici, piove dal cielo sotto forma di vapore fosforescente. La cinepresa segue queste scie luminose, guidata da pulsazioni luccicanti. PTU è un film che dà concretezza visiva all’espressione “venire alla luce”: attraversare l’oscurità per raggiungere porzioni di spazio illuminate significa guadagnarsi il diritto all’esistenza. L’insicurezza esistenziale si identifica con l’intermittenza luminosa: la luce, sarcasticamente discontinua nelle tenebre hongkonghesi, è salvezza. Forse.
