Drammatico, Recensione

PROPRIETÀ PRIVATA

Titolo OriginaleNue Proprieté
NazioneBelgio/ Francia/ Lussemburgo
Anno Produzione2006
Durata92'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Una donna vive sola con i suoi due figli gemelli in una casa di campagna in Belgio. Nonostante siano divorziati da anni, lei e suo marito continuano a scontrarsi di fronte ai figli, due giovani incapaci di badare a sé stessi.

RECENSIONI

Quello che impressiona maggiormente nel film di Lafosse, alla sua seconda prova, è la tangibile verità dei personaggi che mette in scena, la grande sensibilità nel renderne le sfumature senza indulgere in spiegazioni posticce o didascalici sguardi al passato: i quadretti familiari che illustrano i rapporti tra i tre protagonisti sono, in tal senso, esempi laceranti di uno stato di fatto che si impone all'occhio in virtù dell'estrema efficacia della rappresentazione; si prenda la madre (la solita Huppert da applauso): il suo personaggio è dipinto con rara profondità di tratto, in ogni dettaglio, slanci e debolezze - la voglia di indipendenza, l'affetto per i figli, la tensione con l'ex marito: indecisioni e colpi di testa, annessi e connessi -. Il regista porta sullo schermo, stante le opportune trasfigurazioni, la propria esperienza personale e descrive il graduale ma ineluttabile collasso di un nucleo familiare con tutto il suo contorno di violenze - trattenute e manifeste, psicologiche e fisiche - e in cui la rivalità tra i due immaturi gemelli (i fratelli Renier, straordinari) rispecchia il conflitto dei due genitori: la casa diventa il terreno e l'oggetto di una guerra senza quartiere che non può che sublimarsi in una tragedia che, opportunamente, lascia aperto il finale. Accanto alla scrittura perfetta il film vanta anche una regia di rara sobrietà che non solo sa lasciare spazio all'improvvisazione del cast ma che dimostra, soprattutto, una rimarchevole gestione dello spazio scenico. Un'opera asciutta e controllata che a Venezia avrebbe meritato più attenzione.

Nue propriété (formula impiegata per la vendita di un immobile conservandone l’uso vita natural durante: proprietà senza uso, uso senza proprietà) è dedicato “Ai nostri limiti”, dedica fastosa nella sua ambiguità: limiti come dolorose mancanze e limiti come confini che definiscono una morale, moderando lo slancio verso l’assoluto. E sono proprio i “buoni” limiti a latitare nella famiglia asimmetrica composta dai gemelli biovulari Thierry e François (i veri fratelli Rénier in una prova adesivamente convincente) e della madre-amica Pascale (la solita micidiale Huppert): François non sa contenere la prepotenza del fratello, la madre è incapace di disciplinare la sfrontata avidità del figlio e Thierry, ineluttabilmente, è destinato a schiantarsi contro l’assoluto di cui sopra, incarnato – la banalità del male - dalla violenza privata. In questo senso Nue propriété è davvero devastante: la descrizione dell’impossibilità di fabbricarsi una morale al di fuori del conflitto è splendidamente oggettivata nel comportamento di Thierry, disperato combattente etico in cerca di una giustizia tutta sua, in aperto e strenuo contrasto con i costrutti affettivi degli altri. Per praticare questa dissezione sentimentale prossima alla necroscopia, Joachim Lafosse si rifà molto più all’Haneke di 71 frammenti di una cronologia del caso e di Benny’s Video che ai connazionali fratelli Dardenne: incidendo il tessuto familiare a colpi di pianisequenza, il cineasta belga isola blocchi di rappresentazione lapidari nella loro amorfa inesorabilità. Inquadrature fisse incorniciate da quinte ambientali (pareti, porte, elementi architettonici) che concentrano ulteriormente l’orizzonte visivo ed emotivo degli eventi. Campioni ottici di una esemplarità lancinante. Una certa programmaticità nuoce al film, occorre riconoscerlo, soprattutto in sede di scrittura (i caratteri risentono di un eccesso di antitesi), come non giova alla progressione drammatica un simbolismo talvolta piuttosto ermetico (il tiro ai topi nello stagno) talaltra esageratamente manifesto (i frantumi del tavolino=famiglia raccolti silenziosamente dai due ex coniugi), ma la sicurezza dell’impianto spaziale (l’intero film è incardinato su una tavola rotonda che si trasforma in scacchiera affettiva), unita alla sobrietà dello smarrimento finale riconducono i “limiti” del film alla sua dimensione d’insieme: un polittico di ferma e ghignante eleganza (sono numerosi i momenti ironici che punteggiano la narrazione) squadernato sull’abisso dell’irresponsabilità. Doppiaggio rococò.

Mentre in Italia impera anche al cinema (con la luminosa, divertita eccezione di Bellocchio) la retorica sulla sacralità e la purezza ontologica della famiglia, in paesi culturalmente più avanzati gli autori – grandi e piccoli – non mostrano complessi d'inferiorità verso quel ricettacolo di arcaiche nevrosi, né sono succubi di prediche o anatemi nell'indagarne le patologie. Non si tratta di un tema nuovo, ma sono interessanti le prove di solido mestiere offerte da sceneggiatori e registi poco interessati all'esaltazione di un ideale astratto e idillico, e per converso molto attenti a una definizione “dal basso”, senza melodrammi e con tragedie toccate o sfiorate come per caso, dell'intrico affettivo, materiale e finanche corporeo che stringe genitori, figli, fratelli: gelosia, tenerezza, invidia, dipendenza, interesse, rivalsa, fastidio, desiderio, senso di colpa, noia. Tracce emergenti in forza di ambigui scampoli di conversazione (come quello tra la protagonista e il suo amante), di piccoli gesti concreti (cibarsi, lavare i capelli, lavorare un legno), della malcelata impazienza di uno sguardo. Dal troppo detto di Özpetek all' accenno degli autori d'oltralpe: si torna a respirare aria di cinema. La dinamica dei rapporti così inquadrata rivela, senza che neppure siano necessarie acrobazie della m.d.p. o vertigini di montaggio, uno dei profili della famiglia: l'ideale campo di battaglia in cui ciascuno persegue una strategia per la conservazione o la conquista del territorio; ad esempio, il padre si allea in modo diverso con Thierry e François, sollecitando il lato più fragile di ognuno dei due, per usarli al fine di sopravanzare la madre nel loro cuore e spingerli a condizionarne la condotta. Ma, come si è detto, tutto questo viene mostrato con brevi efficaci tratti e con attori felicemente in parte, a cominciare dalla Huppert che dona anche a quest'ultimo personaggio l'aurea maniera di cui è prodiga dispensatrice, da taluni rimproveratale per una presunta monotonia mentre a noi sembra ancora una volta capace di esprimere sfumature, chiaroscuri e vulcani sotterranei, in una recitazione “per via di levare” che è senza dubbio lontana e di minore immediatezza espressiva, ma non perciò meno valida, degli standard consueti.