TRAMA
2089: Una coppia di archeologi trova delle pitture rupestri che spiegherebbero l’origine (aliena) dell’uomo sulla terra. Nientemeno. L’astronave Prometheus, quattro anni dopo, sbarca su LV-223 per verificare l’attendibilità dell’audace intuizione.
RECENSIONI
Prometheus. Il titolo è ottimo. Il riferimento al mito creazionista (in senso buono) funziona ovviamente a un duplice livello; rimanda da un lato al valore fondativo del film nei confronti della saga Alien-a, dall’altro al “contenuto” del film stesso, imperniato sull’ipotesi che il genere umano abbia avuto origine prometeiche alien-e. Poi suona bene, è cool ed è facile proiettarci qualcosa di vagamente, che so, colto. Anche l’inizio è ottimo. Tutto il prologo naturalistico/documentarista, come una produzione National Geographic Ancestral, e l’atto della creazione sacrificale per mano del titano albino, poi l’ellissi che proietta nello spazio, coi campi larger than life sull’Universo, e la minuscola astronave da cercare/individuare con attenzione nel quadro. C’è fascino, c’è una visione registica non nuova ma rinnovata di topoi fantascientifici stravisti, c’è un giusto approccio – un po’ onanista – a un (proprio) film mito da omaggiare, prequelizzare e superare in un colpo solo.
Fin qui tutto bene. Anzi, no. Già all’interno di questo incipit poco eccepibile, c’è da eccepire sull’effettivo avvio della vicenda. La coppia di archeologi trova, sparse per il mondo, delle pitture rupestri non coeve raffiguranti dei giganti e una medesima mappa stellare. Conclusione (il)logica: si tratta di un invito e gli autori dell’invito sono i nostri creatori. Ora, se già la cosa dell’invito fa storcere il naso, la faccenda dei creatori spilungoni è un fastidiosissimo campanello d’allarme, che chiarisce subito quale tipo di attenzione sia stata riservata, in sede di scrittura, alla coerenza interna e alla solidità strutturale della sceneggiatura. Più meno, nessuna (attenzione). Su quale base i due studiosi saltano alla conclusione che le creature raffigurate sulle rocce sono i nostri demiurghi?
Fin qui tutto bene. Anzi, no. Già all’interno di questo incipit poco eccepibile, c’è da eccepire sull’effettivo avvio della vicenda. La coppia di archeologi trova, sparse per il mondo, delle pitture rupestri non coeve raffiguranti dei giganti e una medesima mappa stellare. Conclusione (il)logica: si tratta di un invito e gli autori dell’invito sono i nostri creatori. Ora, se già la cosa dell’invito fa storcere il naso, la faccenda dei creatori spilungoni è un fastidiosissimo campanello d’allarme, che chiarisce subito quale tipo di attenzione sia stata riservata, in sede di scrittura, alla coerenza interna e alla solidità strutturale della sceneggiatura. Più meno, nessuna (attenzione). Su quale base i due studiosi saltano alla conclusione che le creature raffigurate sulle rocce sono i nostri demiurghi?
Dal momento del risveglio dal crio-sonno, tra un riferimento al mito di Prometeo e l’altro (il fango generatore di vita), Prometheus inizia a ripercorre tutti i loci di Alien, del quale mutua snodi narrativi più o meno chiave ed elementi B-Movie (le macro-caratterizzazioni dei personaggi stereotipati), cospargendosi di (neanche tanto) cripto-riferimenti iconici che proiettano nel futuro-passato della saga (i vasi/uova fecondanti) e concludendo il film con adamantina derivatività retroattiva: l’ultimo sopravvissuto è una donna che si scontra col mostro e risolve la tenzone aprendo un portello dell’astronave. Più chiaro di così. Ma questo andrebbe benissimo. Rendere in qualche modo sovrapponibili i due film in modo da legarli indissolubilmente e riconsegnare la saga nelle mani del suo Prometeo, ci può stare. Così come andrebbero benissimo le trovate “ammiccanti” (la scrittura aliena ricorda quella della saga parallela-tangente-secante Predator) e le simpatiche esche narrative lasciate cadere nel nulla [si prospetta una classica sequenza di suspense bip bip (leggi: rilevatore di movimento) ma poi non se ne fa di niente. Scherzetto]. Il punto è un altro. Il punto è che, come già accennato, Prometheus sfoggia una scrittura viepiù involuta a livello pragmatico (succedono stronzate) e schiava di un rarefatto progetto teosofico senza capo né coda.
Andando con disordine: atterraggio a braccio su LV-223 (“atterra laggiù”); androide David che legge la scrittura aliena, utilizza dispositivi alieni e parla un alienese scolastico ma fluente, grazie a un corso accelerato effettuato nei due anni di viaggio a base di antiche lingue terrestri; reazioni scomposte dei cosiddetti “scienziati” dell’equipaggio, col biologo che incappa nel cadavere di una forma di vita extraterrestre e, insieme al geologo punk, scappa a gambe levate di fronte alla più grande scoperta della storia della biologia (postilla: i due fessi si perdono nei corridoi e vengono trucidati come in un qualunque slasher anni ’80. Tra l’altro, giocherellando con una creatura vermiforme viva, vegeta e aggressiva. Scappano di fronte a un cadavere ultramillenario e poi scherzano con un mostriciattolo contemporaneo vivente); proiezioni fantasmatiche spuntano dal nulla e illustrano il passato ai presenti; David “contagia” l’archeologo Charlie ma nessuno capisce bene perché; il personaggio di Weyland, la cui presenza sembra finalizzata all’unico scopo di mostrare fin dove ci si può spingere in materia di miscasting (perché Guy Pearce? E perché truccato così?); l’incoerente meccanismo di riproduzione aliena: ora avviene una mutazione in mostruoso vecchietto (Charlie), ora in invasato-zombi-invulnerabile assetato di sangue (Fifield) ora alla maniera classica, con impianto fetale (Elizabeth) (postilla: David effettua l’ecografia a Elizabeth e la informa che il feto ha tre mesi. Cioè: Elizabeth cova in grembo da poche ore una specie di seppia xenomorfa dell’oltrespazio e l’androide tuttofare ne stabilisce l’età?).
E questo andando a memoria. Scrivendo di getto. Tralasciando altre dozzine di omologhe stupidaggini. Ma non occorre essere Francis Vanoye per capire che non si tratta di una sceneggiatura propriamente di ferro. Né è difficile constatare che un Ridley Scott sostanzialmente in forma (l’accennato prologo, gli esterni su LV-223, la grandiosità di molti momenti puramente spettacolari) è costretto a girare sequenze che non possono stare in piedi (il “suicidio con lanciafiamme”), a gestire personaggi monodimensionali (quello della Theron) o a dimenticarsene altri sull’astronave (i due “scommettitori” che rispuntano dal nulla verso la fine quando, col comandante della nave, decidono di fare i kamikaze per sentito dire). La tentazione è dare un nome e un cognome al peccato originale di Prometheus: Damon “Lost” Lindelof. Perché, ok, Scott voleva forse tornare in pompa magna alla sua Creatura e mirare alto, fare qualcosa di più evidentemente ambizioso di Alien (che alla fine era un B-Monster-Movie capace di trascendere e riqualificare il proprio status), magari obliterando il ricordo degli apocrifi più (Paul W.S. Anderson) o meno (i fratelli Strause) nobili della serie Vs Predator. Ma affidare l’elevazione filosofeggiante della saga a Lindelof si è rivelato un azzardo. Dei microsvarioni circostanziati abbiamo detto. Ma altro problema non trascurabile lo si ritrova proprio a livello macro. La germinazione frattalica di misteri, in Lost, aveva un senso preciso: ogni episodio e ogni stagione erano strutturati in modo che il fattore “mistero”, appunto, diventasse progressivamente il motore mobile di tutta la vicenda, con vicoli ciechi, procrastinazioni oltranziste, meta-segreti che ne generavano altri, fino a scomodare temi Assoluti ma rarefatti, sempre sfuggenti, mai veramente a fuoco. Per Lost ha funzionato. Era un modus operandi messo a nudo in corso d’opera, un gioco sulla narrazione, sulla serialità (e dunque sulla narrazione seriale) concluso alla meno peggio, sfiorando l’autoparodia, ma accettabile perché ormai puro espediente formale, e perché ormai la Storia della Televisione era stata (ri)scritta.
Ecco, anche Prometheus funziona un po’ come Lost. Ma non funziona. Perché la crescita progressivo/evolutiva dei misteri (chi è la creatura albina dell’inizio? è l’alieno che ci ha generato dal suo DNA. Perché l’ha fatto? E perché ora ci vuole annientare? E lui chi l’ha creato? E noi, insomma, da dove veniamo?, Che siamo? Dove andiamo?) non fa in tempo a diventare un elemento ludico autoreferenziale ma non ce la fa a farsi prendere sul serio, a svolgere la sua funzione di innestare vera profondità nella saga, in qualche modo di riscattarla dalla sua basicità di fondo per ammantarla di riflessioni presumibilmente “alt(r)e”. Non ce la fa, si diceva, e nel suo non farcela, Prometheus rimane in un pericoloso limbo, quel limbo affollato nel quale il Pretenzioso e l’Inconcludente cominciano a darsi del tu, in attesa di fare amicizia col Ridicolo. Prometheus, certo, si guarda. A tratti, perfino, si gode. Ma la scrittura, nel suo complesso, è davvero difficile da accettare. Si parla però di un secondo capitolo. Si dice che Lindelof non sarà della partita. Si spera che, nel caso, il sequel del prequel riesca a togliere quest’ultimo dall’imbarazzo, chiarendo dove possibile e rivalutando qua e là. Si spera.
Nonostante le dichiarazioni contrarie di Ridley Scott, che è partito dalla figura enigmatica dello “space jockey” presente nel primo capitolo, è un vero e proprio prequel al suo seminale Alien del 1979, per quanto faccia di tutto per non ascriversi nei codici seriali dei numerosi seguiti: figurativamente e non, il regista inglese reinventa la saga, a partire dal fatto che non mostra l’Alieno xenomorpho, ma le sue mutazioni-evoluzioni primigenie. Lo stesso racconto, in un modo affascinante che scongiura la mera operazione commerciale di sfruttamento del risaputo, verte sulla ricerca esistenziale del Creatore e dell’origine dell’uomo, per giungere a svelare la ragione d’essere (nel finale a sorpresa, bel colpo) di questi parassiti che ci hanno terrorizzato per più di trent’anni. Girata con tecniche 3D dal direttore della fotografia Dariusz Wolski, l’opera di Scott dona un ruolo fondamentale e ambiguo (anima/non-anima) alla figura del robot (non viene chiamato androide) Blade Runneriano interpretato da Michael Fassbender, innamorato del Lawrence d'Arabia di David Lean e (grande attore) capace di passare dalla non-emozione con sorriso di circostanza a sfumature in cui pare nascondere la propria sensibilità. Nell’ambito del fantahorror, non mancano le scene forti (su tutte quella, memorabile, di Noomi Rapace che si asporta il feto da sola) ma la ragion d’essere del film alberga altrove, nel pathos dell’uomo che si interroga sui segreti degli dei, come mito di Prometeo insegna. Tutto perfetto ma, a parte il commento sonoro di Marc Streitenfeld che scimmiotta troppo John Williams e la fantascienza di Spielberg, un difetto c’è nel disegno dei personaggi: nonostante le premesse-promesse, alla fine sceneggiatura e regia non sono in grado di restituirli attraenti o compiuti o davvero originali nei loro dilemmi esistenziali. C’entra, probabilmente, anche il montaggio: Pietro Scalia ha lamentato di non aver avuto modo, con esso, di rendere chiari tutti i passaggi.