Recensione, Thriller

PROFONDO ROSSO

TRAMA

Un pianista assiste all’omicidio di una medium: il fatto potrebbe essere collegato ad un efferato delitto commesso decenni prima…

RECENSIONI

Il quinto lungometraggio di Argento è costruito in maniera squisitamente ossessiva su due tinte principali, il carminio e l'oro. Una striscia di sangue percorre la pellicola a partire dal fulminante, sincero (ma non esaustivo) prologo: se ne trovano tracce in ogni scena, non solo in quelle strettamente “delittuose” (il velluto delle poltrone e delle tende nella sala teatrale). Se il colore che arrossa lame di vario taglio è, come suggerisce il titolo, cupo al pari dei pensieri che occupano la mente dell'omicida e finiscono per contagiare, almeno in parte, le sue vittime effettive o virtuali (le allucinazioni della medium, le ricerche bibliografiche di Marc), la lucentezza (lo shining?) dei gioielli, delle decorazioni (il teatro, il corridoio dell'epilogo, la collana) e delle lame stesse crea un contrasto altamente suggestivo. Il rosso marca l'efferatezza, il giallo opulento la incornicia e, alla fine, la smaschera e la punisce con altrettanta crudeltà. Lo scontro fra colori primari è posto in risalto da uno sfondo neutro e ondeggiante: un orizzonte di grigi torbidi, appena alleggeriti da qualche chiazza biancastra, delinea una città di pura fantasia, nella quale i confini fra sanità e pazzia sembrano sgretolati. Forse non è un caso che l’investigatore (recalcitrante) sia un pianista, una persona che distingue senza incertezza fra i bianchi e i neri della tastiera: le indagini lo indurranno a ristrutturare il proprio campo visivo (il finale), a considerare in maniera meno netta e automatica la realtà. Il delitto sepolto nel passato torna alla luce grazie a una progressiva ricostruzione che passa attraverso le immagini (i colori vivaci di un affresco occultato dietro una parete bigia, un orrendo disegno a tinte sgargianti). L’importanza accordata alla componente visiva non induce a trascurare quella sonora: non solo la celebrata musica dei Goblin e di Giorgio Gaslini, ma i rumori, gli accordi appena accennati di pianoforte, la voce artefatta del killer, tutto contribuisce a plasmare una formidabile partitura dell’orrore. Il meccanismo a orologeria può infastidire nella deliberata ricerca del terrore a tutti i costi, ma è innegabilmente efficace. “Profondo Rosso” è, come “Psyco”, uno di quei film che non finiscono mai di terrorizzare per motivi di volta in volta diversi: si può conoscere a memoria la trama, addirittura l’esatta successione delle inquadrature, ad ogni visione si coglieranno particolari sempre nuovi, a volte deliziosamente perfidi, spesso terrificanti. Al fondo di tutto, in ogni caso, il rovesciamento della canonicità del genere horror: un antieroe involontario, imbelle e un po’ stupido, una femme non si sa quanto fatale, scaltra e troppo tempestiva per non suscitare dubbi fin dalla sua entrata sulla scena (del delitto), un amico decisamente stravagante. Fino allo sconvolgente epilogo, l’assassino sfugge a Marc e allo spettatore: anche il più abile solutore di sciarade alla Christie rimane sulla corda, non soltanto perché la malefica macchina di Argento ne ottunde i sensi. L’intreccio è imprevedibile a causa della sua forza metalinguistica, della sua capacità di riverberare il cinema nel cinema. Solo all’ultimo si comprendono le cause di un casting per lo meno stravagante: quella cornice vuota è un’inquadratura che rimanda a qualcosa di già visto… La corda si spezza. Buio, silenzio.

Uno dei più amati, critica dell’epoca esclusa, film di Dario Argento, magistrale nel comporre un’atmosfera di paura, nel creare attesa, nel giocare con le soggettive (con identificazione assassino-spettatore e ambiguità dello sguardo attraverso la macchina-cinema), nella ricerca cromatica, nei dettagli (fra cui il pupazzo terrificante di Carlo Rambaldi e i disturbanti quadri di Enrico Colombotto Rosso). Più deludente, al solito, nelle soluzioni finali (quelle narrative, non quelle che si desumono dagli espedienti tecnico-espressivi). Nenia a parte, motrice delle gesta dell’assassino e segno del leitmotiv che trasforma le gioie dell’infanzia in terrore, è memorabile il commento sonoro, inizialmente affidato al Giorgio Gaslini di Le Cinque Giornate poi completato dall’ancora sconosciuto gruppo romano progressive Goblin (che riecheggia il Tubular Bells di Mike Oldifeld reso celebre da L’Esorcista). Lo spunto viene da un sogno del regista, l’idea di recuperare dive dal passato in ruoli thriller è figlia di Robert Aldrich, l’espediente narrativo iniziale è La Finestra sul Cortile ma è tutta argentiana (e in stile Blow-Up, vedi David Hemmings) l’ossessione per il tassello mancante del puzzle, per l’indizio che fuorvia. Il film doveva inizialmente costituire una coda alla trilogia zoologica in thriller ma le suggestioni horror impazzano: la critica lo accusò di platealità, eccessive efferatezze e incongruenza della trama. Girato in inglese e ambientato in una sorta di città ideale, ricostruita con parti di Roma, Perugia e Torino, immersa in tinte scarlatte e nel sangue.