TRAMA
Palestina/Israele: la convivenza coatta fra due popoli – uno dei quali in posizione di forza – che si contendono la stessa terra, in una dimensione privata e minima, cioè basilare.
RECENSIONI
Abbiamo imparato a diffidare dell’idea di patria. I nefasti usi a cui il vocabolo stesso e le sue derivazioni vengono piegati, grazie a una retorica subdola che spinge a identificare gli interessi – a volte occulti, a volte neanche troppo – di taluni con il bene di tutti, sono troppo evidenti per poterci rifugiare con ingenuità dietro il loro paravento. Ma esiste una nozione di patria – per la quale la lingua tedesca utilizza lo specifico vocabolo Heimat, distinto da Vaterland così come in latino domus è diverso da patria – che richiama non già un istinto predatorio e di sopraffazione, bensì di privatezza, tranquillità e pace. Le dispute sulla terra hanno in genere, per una delle parti in causa, questa connotazione profonda, che si colloca al di sotto e al di là della retorica guerresca e demagogica, e attiene all’identità; concetto-prigione anch’esso, senza dubbio, ma apparentemente necessario agli esseri umani per poter pensare se stessi in rapporto alla realtà che li circonda. Sotto questo aspetto, il conflitto israelo-palestinese ha la tragica particolarità che quella connotazione profonda, intima e sociale al tempo stesso, è condivisa dai contendenti invece che essere prerogativa di uno solo fra essi. Saverio Costanzo, esordiente nel lungometraggio, descrive quell’infausto contrasto di popoli proprio muovendo dall’idea di casa: la vita quotidiana di una famiglia palestinese della media borghesia – padre insegnante d’inglese, madre casalinga, figli fra i sei e i diciott’anni – viene sconvolta dall’occupazione militare dell’edificio in cui abita, collocato in posizione strategica per la protezione degli insediamenti israeliani. Di fronte a questa violenza la scelta – inizialmente imposta dal capofamiglia, ma progressivamente condivisa dagli altri – è di non abbandonare la casa, rimanendovi da reclusi sotto le imposizioni e le minacce dei fucili israeliani. La metafora è chiara, l’idea drammatica promettente, gli spunti narrativi interessanti: la coabitazione forzata, i rapporti di forza, le lingue diverse (lo strumento di comunicazione fra i due gruppi è l’inglese), l’irremovibile convinzione degli uni e degli altri di essere sulla propria terra, nella propria casa – come è evidenziato nella sequenza forse più riuscita, l’incontro notturno e solo sognato fra il padre e il capo del commando militare – l’ostilità verso gli occupanti che prende nei componenti della famiglia strade diverse (il desiderio di violenza o di fuga, una spaurita rassegnazione, una ferma e disarmata resistenza), la curiosità che spinge la figlia maggiore a osservare non vista i soldati e a spiarne i passatempi, la noia, la paura, la nostalgia di un’altra casa. Il primo impatto con quest’opera, come abbiamo cercato di descrivere, è positivo; tuttavia, le buone idee non evitano al film le secche di una sceneggiatura balbuziente, incapace di sviluppare i motivi di cui pure non è avara. Così, ogni snodo diegetico viene ripetuto pari pari almeno due o tre volte, ma senza riuscire a comunicare quello che per i protagonisti ne è l’ossessivo martellìo: le discussioni in famiglia se restare o partire, il salire della figlia maggiore al piano superiore della casa per osservare gli occupanti, le notti trascorse dalla famiglia costretta nel soggiorno. Anche i tentativi di imprimere maggiore tensione al racconto sono risolti con espedienti facili e non troppo riusciti: la bambina resta separata dai genitori durante uno scontro a fuoco; uno dei figli adolescenti piazza una bomba nella serra mirando a far saltare per aria i soldati, contro le esortazioni paterne alla resistenza pacifica; la figlia più grande rischia ogni volta di essere scoperta. Soprattutto, al regista sembra mancare completamente il ritmo del racconto: ogni episodio è inutilmente lungo: che ci si perda in un dialogo inutile, in un’inquadratura compiaciuta del proprio presunto afflato lirico, nell’inopportuna sottolineatura del rischio che qualcuno finisca a brandelli mettendo il piede sulla bomba nella serra, o infine nelle grida della povera bambina, c’è sempre un elemento di troppo o troppo lungamente insistito che si impone fastidiosamente, attenuando l’inquietudine che voleva rinvigorire o diluendo la metafora che intendeva veicolare, comunque rivelando l’insicurezza del narratore.
Non molto meglio vanno le cose sul piano della pura regia, ruvida e poco originale ma almeno sempre funzionale: un po’ di macchina a mano nelle scene più concitate (l’arrivo degli israeliani, i contrasti famigliari); montaggio abbastanza ordinario con netta predominanza del campo/controcampo (quanti danni, anche qui, dall’imperio televisivo); qualche timido e piuttosto maldestro accenno di piano sequenza; colori sgranati nelle sequenze notturne e nitidi e lividi in quelle diurne. Lode incondizionata, per contro, alla scelta degli attori: splendide facce, pochissimo o per nulla note in Italia, che trasmettono più emozione e turbamento di quanto qualunque stella o stellina sia capace di fare qui da noi; e per una volta l’esagerazione sia consentita allo scriba, appena reduce dalla visione – visione? allucinazione! – domestica di Ovunque sei.