TRAMA
Quando Priscilla Beaulieu conosce Elvis Presley ha quattordici anni e non è mai uscita con nessuno. Lui invece è la star del rock’n’roll, con il mondo e le donne ai suoi piedi…
RECENSIONI
Nella sequenza di film recenti sulle principesse tristi, dopo Jacqueline, Diana, Marilyn e Sissi, non poteva mancare, almeno per completezza rispetto a un certo immaginario contemporaneo, Priscilla Beaulieu, anzi, Priscilla Presley.
A dire la verità, nessuna di loro, a parte Priscilla, è identificata, almeno a livello cinematografico, dal nome proprio. Jackie, ovvero il diminutivo che amplifica la portata iconica (senza la “O” che comunque apparteneva all’armatore greco, sposato in seconde nozze). Poi il cognome della famiglia di origine, Spencer, per la regina che non poté mai essere e un dettaglio fisico – effimero? Dipende da come lo si interpreta – per la diva delle dive, Marilyn Monroe, con i suoi capelli biondi che sono a un tempo identità e sineddoche; un dettaglio esterno, infine, cioè una specie di cilicio al femminile, contraddistingue l’Imperatrice d’Austria, in un film che giocava in modo insistito con l’anacronismo, alla ricerca di un baricentro temporale – e di uno sguardo, anche filmico, di film nel film – smarrito nei meandri della Storia.
Priscilla invece è Priscilla. Non stupisce, del resto anche la coppoliana Maria Antonietta era Maria Antonietta. La datata autobiografia – siamo nel 1985, quando viene data alle stampe – alla quale Sofia Coppola si ispira per questo suo lavoro appare, in tal senso, di matrice opposta, denotata da una scelta che tuttavia è probabilmente dovuta a ragioni di marketing e di riconoscibilità del prodotto: Elvis and Me. Resta il fatto che è come se si volesse sottolineare la preminenza del divo su una “me” accessoria: una vale l’altra, tralasciando l’aspetto di rivendicazione identitaria che invece sta a cuore alla regista statunitense.
Al contrario di Sissi, Priscilla va a tempo, pur bruciando, per così dire, le tappe, ma quello dove vive ci appare come un non luogo. Graceland: da una parte il fastoso luna park di The Pelvis, sempre affollato di gente, dall’altra mausoleo di miniature, dove persino la minuscola Cilla sembra muoversi – in specie nel grande-piccolo salone – come una bambola, quale è infatti considerata. Priscilla, giovane simbolo di castità (raffigurazione verginale che lei tra l’altro non desidera), assurge a un certo punto, derealizzandosi, a qualcosa di simile a una funzione referenziale jakobsoniana, se stessimo parlando di linguaggio. La giovane, anzi, giovanissima, riplasma la propria identità attraverso il contesto: i capelli, le ciglia finte, persino lo sguardo e l’abilità di dissimulare, come nel caso dell’esame copiato. Tutto di lei diviene nuovo e adatto. Coppola, pur utilizzando una luce rassicurante, dal blu-verdognolo ai toni vellutati dell’arancio, in stile, rispetto all’epoca del racconto, rende le dimensioni, a questo punto dimensioni preminentemente psicologiche, di carattere quasi espressionista. I tagli non sono quelli di luce, e si esplicano piuttosto nelle relazioni tra i due protagonisti, ma anche in quelle della giovane donna con all’ambiente che la circonda e la fagocita; l’allampanato Elordi, altissimo, specie rispetto alla minuta Cailee Spaeny, e sempre uguale a sé stesso, dall’inizio alla fine, anche dal punto di vista corporeo – e noi sappiamo che così non è stato per The King – è dunque, simbolicamente, più un caligariano Cesare che un presumibile Elvis Presley; lo contraddistingue una sostanziale immutabilità/immaturità permanente. Ciò senza bisogno di scomodare la performance magnetica di Austin Butler in Elvis: altri intenti, altra poetica. In Luhrmann si ricercava un iperessere, un essere sovraesposto e sovradimensionato, nel cinema di Sofia Coppola si ha spesso a che fare, magari non in senso letterale, ma chissà, con dei fantasmi. La stessa Priscilla, con una cotonatura che sfiora il cielo, assume nell’apparire una dimensione che le viene inibita nell’essere, perché continuamente controllata, ripresa, rinchiusa. Priscilla vive nell’attesa di un ritorno che non potrà mai arrivare davvero perché è figlio di un fraintendimento di fondo. Non so se la si possa leggere in questo modo, ma c’è in particolare una scena che fornisce alcuni indizi. Elvis e Priscilla vanno insieme in una sorta di cineclub. Vedono un film che è uscito alcuni anni prima rispetto all’incontro tra i due. Nel ’53, per la precisione, mentre i due innamorati si conoscono nel 1959, in Germania, dove Presley, già celebre e celebrato, si è dovuto arruolare soldato. È un film che il cantante sembra conoscere a memoria, quasi fosse una pietra miliare della settima arte. Peccato che, a dispetto dei nomi coinvolti – si vedono almeno Bogie, Peter Lorre, versione Truman Capote, e Robert Morley – non lo sia affatto. Il tesoro dell’Africa è piuttosto un divertissement d’autore – alla regia c’è un certo John Houston e Capote co-scrive – con una trama e dei dialoghi a dir poco strampalati: un fraintendimento, appunto, uno dei tanti. Si può dire un bluff?
Sofia Coppola, come già aveva fatto in Bling Ring, decide di sottrarsi del tutto a uno sguardo morale per non correre il rischio di diventare moralista. In questo modo però il rapporto tra la star e la bambina, perché poco più di questo Priscilla è quando conosce Elvis e quando comincia a frequentarlo – la famiglia di lei, dapprima assai scettica, viene convinta… da una divisa – si indebolisce fino a sfiorare l’ordinario paradossale di un rapporto amoroso malsano, né unico né raro, ahinoi.
Certo, un dato rilevante, se si guarda alla filmografia della regista, c’è ed è la capacità, per dirla alla Vogler, del cosiddetto Return with Elixir, che anche da un punto di vista allegorico segue il superamento di una soglia, il momento che viene chiamato “resurrezione”. Priscilla, benché lo spettatore ne sia reso edotto in modo troppo poco incisivo, riesce, nonostante tutto, a mettere in atto un cambiamento che riguarda solo lei, che riguarda il suo essere donna, ma che notiamo anche nel modo in cui sceglie – lei sceglie – di apparire: la pettinatura si sgonfia, finalmente, le lunghezze tornano del loro colore naturale.
Priscilla esce dal cancello, va via… vive (?). Così non era stato per le sorelle Lisbon de Il giardino delle vergini suicide. Così non era stato neppure per il collegio femminile di spettri (se non lo era già, lo sembrava, o lo sarebbe diventato a breve, più simile a The Others che alla carnalità che trasudava da ogni poro del film di Don Siegel) in The Beguiled. Un confine non oltrepassabile e poi loro, impassibili e immobili, lucide e asettiche, come la geometria perfetta di un’inquadratura che non deborda, anche se si tratta di orlare una sacca funebre; e fuori il vuoto, il nulla.
La specularità con la Maria Antonietta, screziata di pop, dell’omonimo Marie Antoinette è inevitabilmente illusoria: l’addio a Versailles/Graceland, dopo gli spari prodromici, durante la cena con il sovrano, rappresenta un cammino verso la morte, non certo una possibilità di rinascita.
Priscilla invece sì, se ne va, si concede di rinascere, con amore, per amore, ma la ribellione, se di questo si tratta, senza volerla banalizzare, non assume il contorno eretico di quella di Nora, in Casa di bambola di Ibsen. Perché è come se, nel momento del climax drammaturgico, il film di Sofia Coppola, emotivamente rarefatto fino all’impalpabilità, fosse già imploso da tempo, abdicando a gran parte della sua forza potenziale.
A margine: la produzione non avrebbe potuto fare diversamente, dato che pare che gli eredi abbiano negato la possibilità di utilizzare i brani e le interpretazioni in versione originale. Eppure, anche se è ben chiara la scelta, sul finale, di I Will Always Love You, cantata da Dolly Parton, ho pensato a quanto sarebbe stato dirompente/dissacrante usare il sottofondo dell’ultima esibizione live – struggente, da brividi – di Elvis Presley: Lonely rivers sigh/”Wait for me, wait for me”/I'll be coming home, wait for me.