TRAMA
Blind date a Vicenza: l’orafo è subito insoddisfatto del troppo peso della ragazza, ma s’innamora della sua testa. Lei, per piacergli di più, inizia a dimagrire.
RECENSIONI
[Anom(al)ie del titolo: volatilità residuale del segno grafico dell'accentazione che non si lascia catturare dalle parentesi. Occorre trasformare alchemicamente la grammatica così come la materia].
Cinema della differenza, sulla differenza, fondamentalmente quello di Garrone. Figure della difformità che si muovono faticosamente in uno spazio sempre troppo piccolo per contenerne la debordanza, sempre troppo ampio per percepirne i movimenti. Cinema che assume come paradigma estetico il discorso sullo spazio, sui luoghi, affrontato dai vari Amelio, Mazzacurati, Soldini, ma prima ancora Pasolini, Antonioni, e principalmente Rossellini, come punti di riferimento eminenti per approfondire la relazione cinematografica che lega il (presunto) soggetto allo spazio (dis)abitato, che ne coglie gli impercettibili spostamenti come modificazioni interiori, psicologiche (le esistenze imbalsamate nella più apolide delle napoletanità di L'imbalsamatore, tanto per abbandonarsi agli esempi). La m.d.p. di Garrone (è quasi sempre lui l'operatore alla macchina) è scrupolosamente attenta al gioco di avvicinamenti e distanziamenti dei/dai corpi, dai volti. Non c'è soggetto nel cinema di Garrone se non l'implacabilità del suo sguardo scostante/spostante, ora freddo ora accesisssimo. Un occhio che scruta più che osservare, autoptico, brackhageiano, (disperatamente), la messa in opera di un'ossessione entomologica più che voyeuristica, di un procedimento tassidermico che scava dentro i corpi per sviscerarne i loro segreti (/secreti), la loro interiorità, per poi alla fine ricucirli attribuendogli o, meglio, insufflandogli l'illusione di un'esistenza imbalsamata (questa è la riflessione del cinema di Garrone sul soggetto, sui soggetti).
Primo amore, che non è (solo) un film sull'anoressia e sull'equivocità dell'amore, mette in scena sublimemente il delirio dell'alchimista ovvero il delirio di colui che è ossessionato dal mito filosofico-esoterico dell'armonia micro-macrocosmica, del rapporto intrinseco tra res cogitans e res extensa, tra psyche e soma, tra pensiero e materia. Al corpo puro corrisponde una mente pura. Vittorio è ossessionato dall'opus alchemico fino a inscenare nel teatro delle sue psicosi il sogno/delirio dell'alchimista che deve trovare la quintessenza, la pietra filosofale, che deve trasformare la merda in oro, cioè in oro filosofico, ossia purezza interiore. La purificazione è un processo fisico di 'toglimento', l'alchimista (e Vittorio lo è) deve, michelangiolescamente, neo-platonicamente, togliere via tutte le impurità della materia per raggiungere la bellezza assoluta, che corrisponde alla perfezione etico-estetica. Bisogna insegnare alla testa per istruire il corpo, questa è la falsa convinzione degli alchimisti i quali hanno sempre ignorato che anche il cervello è un corpo, e anche gli organi sono cervello (sic docet David Cronenberg) e che forse l'essere umano rimane imprigionato ineluttabilmente nella sua inevadibile condizione di 'opera al nero', di 'nigredo' (interessanti, come sempre, le iperboli cromatiche della fotografia di Marco Onorato atte ad esemplarizzare i vari stadi dell'opus: il rosso del fuoco, i marroni della terra e del corpo umano, i verdi delle luci fredde, il nero delle ombre, della notturnità, come assenza di colore e di esistenza). Vittorio è fin troppo intrappolato nel suo delirio catartico (in senso etimologico) che sul delirio dell'alchimista proietta anche il delirio del demiurgo golemico che vuole dare vita e forma alla sua creatura, non accorgendosi che il corpo di Sonia è un corpo che muore (splendida l'imago mortis della ragazza nell'Accademia, e degli sfiguramenti schieleiani del suo corpo smagrito, devitalizzato, scarnificato). Sonia d'altra parte è ciò che i greci chiamavano hyle, la materia virginale da plasmare che assume su di sé l'ossessione ammantata di psicopatologia amorosa di Vittorio, è la santa anoressica che anela misticamente all'annullamento di se stessa. Straordinaria, pur nel suo didascalismo connotativo, la sequenza del prolungato sfocamento delle figure di Vittorio e Sonia al lago sulla barca, il loro svanire/svenire incorporeo, spettrale. Il delirio di Vittorio dovrebbe idealmente pretendere l'evanescenza del corpo fino a restituirne il suo più ultimo (anche in senso escatologico) residuo: l'anima, il ciò che resta del corpo, che è quello che conta. I '21 grammi' di Iñarritu, altro grande film sulla residualità, sullo scarto letteralmente esistenziale, sulla indefinibile permanenza del qualcosa piuttosto che il nulla. Altro film materico, pima ed oltre che cerebrale, ovviamente 'incompreso' perché visto con i soliti occhi troppo mentali, troppo poco umorvitrei del critico.
Al suo quinto film Matteo Garrone raffina lo stile, gia' molto personale ne "L'imbalsamatore" ma vincolato a una narrazione disequilibrata, e mette in scena il gioco di potere alla base dei rapporti affettivi. Come spesso succede al cinema, sono gli estremi ad attirare le storie, e infatti i due protagonisti vivono all'ennesima potenza cio' che qualsiasi coppia ha modo di sperimentare senza per forza sforare nel patologico. Capita di frequente, infatti, che uno dei due, o anche entrambi in ambiti diversi, eserciti sull'altro un potere che fa leva, il piu' delle volte involontariamente, su un senso di inadeguatezza. Nel film Sonia ha venticinque anni, e' simpatica ed espansiva, lavora in un negozio equo-solidale di giorno e alla sera presta il suo corpo agli sguardi discreti degli studenti dell'Accademia. Si sente magra, ma per l'orafo Vittorio non lo e' abbastanza. E' davvero ben condotto e comunicativo il loro primo incontro alla stazione degli autobus di una cupa eppure luminosa Vicenza, fatto di silenzi, imbarazzi e delusioni. Non sappiamo come sono entrati in contatto, ma capiamo che basta una frase, un rifiuto, per legarli indissolubilmente e in modo tutt'altro che bilanciato. L'insoddisfazione di Vittorio verso il fisico troppo in carne di Sonia trova infatti un varco inatteso, come se la ragazza potesse finalmente dare sfogo a un senso di frustrazione covato a lungo, in cui atavici sensi di colpa si fondono con una profonda e autodistruttiva disistima verso se stessa. Quello che inizia come un rapporto solo un po' particolare si evolve cosi' in una vera e propria caduta agli inferi. Dimagrire diventa un'ossessione e l'obiettivo dei quaranta chili un miraggio in grado di riportare il corpo alla sua essenzialita', condizione imprescindibile per Vittorio, che trasferisce negli affetti cio' che ha imparato dal padre e subìto nel suo lavoro di orafo fin dall'infanzia: l'eliminazione del superfluo per arrivare a cio' che e' davvero prezioso, per cui vale veramente la pena, la sublime purezza. L'emotivita' dei personaggi e' resa perfettamente dalla regia di Garrone, attento a sfruttare la naturalezza dei due credibili interpreti. L'attrice teatrale Michela Cescon si annulla nella progressiva scarnificazione di Sonia, a cui cede con sconvolgente aderenza fisica. Lo scrittore Vitaliano Trevisan (anche co-sceneggiatore) non esaspera la nevrosi di Vittorio, ma ne vive il disagio attraverso l'agghiacciante immobilita' dello sguardo; un disagio che trova nello straniante effetto della cadenza veneta una efficace cassa di risonanza. La regia, coadiuvata dall'intenso commento sonoro della Banda Osiris, cura molto la composizione delle immagini, che si distinguono per bellezza ed armonia, rischia il gratuito vezzo d'autore (la corsa di Sonia tra gli alberi in cui l'occhio della macchina da presa diventa invadente) e raggiunge l'apice dell'espressivita' nella sequenza della gita in barca. I primissimi piani sfocati dei due protagonisti sono infatti una perfetta sintesi della distanza che li separa dal resto del mondo. Inevitabile, e forse proprio per questo da evitare, la tragedia finale.
La costrizione che imbriglia finora il cinema di Garrone è la minuziosa ricerca di un'unità schematica che, senza significative eccezioni, lo contenga totalmente: L'IMBALSAMATORE era un film sbagliato, che ammazzava la propria 'fantasia' nella deformità manicheista (il nano, portatore di alterazione fisica e psicologica: una lynchiata senza Lynch), la storia soffusa che non ha molto da dire (le perenni luci di crepuscolo), l'inabissamento finale della vettura (losco copia-incolla da PSYCHO, alla faccia della citazione). PRIMO AMORE è paradossalmente lo stesso identico film, ma di gran lunga migliore: alle interpretazioni risibili si sostituiscono due essenziali prove d'attore, un soggetto originale spazza via la storiella rimasticata di cui sopra, il mostro si mimetizza nella normalità estetica sviscerando un tormento tutto psicologico. Tanti elementi ritornano: tra tutti la centralità del personaggio deviato che si impegna a modellare (imbalsamare, plasmare) la materia trasformandola al fine della conservazione, nella sua bottega che è il ricorrente antro della belva. Un film, come il precedente, che sceglie uno snodo centrale e su di esso si avviluppa senza mai mollarlo, lo succhia definitivamente fino a renderlo anoressico; ma è la stessa unicità dello spunto a limitarlo, ancora troppo verde per folleggiare attraverso la sacrosanta divagazione. PRIMO AMORE distingue uno stile ormai personale e dissemina guizzi fulminanti, culminando in un lungo finale ove lo spettatore è ormai rapito e partecipe (a partire dalla gita in barca); lo schema si affina ma domani, come ogni pretesa di schematizzare la macchina del cinema, potrebbe già scricchiolare a monte, nelle sue fondamenta.
Che il fenomeno Garrone non si sarebbe risolto in un fuoco di paglia lo avevamo capito incontrandolo a una proiezione torinese del fortunato L’IMBALSAMATORE: sorpreso lui per primo dell’attenzione riservatagli, del successo francese del film, del lancio con tanto di “spot” (come si ostinava simpaticamente a definire il trailer tormentone che aveva imperversato sulle reti nazionali) sembrava (ed era con tutta probabilità) totalmente estraneo al meccanismo promozionale e accidentale che si era creato intorno alla pellicola sulla quale insisteva perché vi si concentrasse l’attenzione, chiedendo platealmente che si chiudesse il siparietto della chiacchiera e si passasse alla visione, ogni altro commento giudicandolo mera perdita di tempo.
In PRIMO AMORE la storia di un’ossessione scorre tra immagini di violenta bellezza, che molto devono alla formazione pittorica del suo artefice, in cui la camera passa con disinvoltura da una pelle all’altra, usando espressivamente le sfocature come maschere metaforiche di ambienti e volti, privilegiando prospettive claustrofobiche, ritagliando sapientemente gli spazi. Garrone gioca con intelligenza sul tasto distorcente e, pregiandosi di un montaggio efficacissimo, afferma l’originalità di uno stile che possiamo già definire riconoscibile. E’ il lavoro di un regista che non si nasconde dietro le formule, che ha voglia di fare il cinema che sente, che non sa cosa sia l’ammicco, che probabilmente approderà alla piena maturità quando si svincolerà dalle maglie del racconto ad ogni costo (un lacciuolo talvolta opprimente che imbavagliava a tratti anche la precedente pellicola), approdando in libertà a quell’astrattismo di cui, nelle immagini del film, si rinvengono sparse tracce. Un’opera vagamente espressionista questo PRIMO AMORE che, nonostante qualche didascalismo, raggiunge senza fatica il peso forma - un equilibrio difficile tra contenuto e stile, tensione e visionarietà – poggiando sulla sua indiscutibile continuità e sull’importante contributo dei due attori protagonisti.
Vittorio è un integralista dell’astrazione, un sacerdote alchimista che vive ossessivamente al fine di purificare ogni composto, depurarlo da scorie ed eccessi. Egli manipola la materia (umana e non) torturandola parossisticamente, arso da una maniacale mira pseudo-platonica: l’oro puro, la forma che si fa sostanza. Matteo Garrone è Vittorio: il suo è un tentativo di cinema incontaminato, coscientemente destinato ad un’asintotica irraggiungibilità. Impossibile eliminare tutto il superfluo, il ridondante: le parole, dette, pensate, estratte come un dente cariato (le parole che Sonia strappa ad un deluso Vittorio ad inizio film appaiono quasi quelle che un riluttante Garrone è costretto dalle “convenzioni” a mettere in bocca ai suoi personaggi), dirompono irrefrenabili come la fisiologica fame di Sonia dopo un digiuno “fullerianamente” sovrumano: il testo, in(pre)scindibile dalla visione, torna prepotente e stonato. Matteo, più realisticamente di Vittorio, costella di cenere l’oro del suo cinema per radicalizzarne il contrasto: la nobile materia delle immagini brillerà tanto più si insozzerà in una “piscina” di lava discorsiva. La lunga sequenza iniziale ci mostra la bocca di una fornace nel suo lavoro di purificazione incessante, avvolgente, spietato. Garrone non presume di avere l’”oro in bocca”: forse il tentativo visionario di Vittorio è più maledettamente affascinante, ma quello di Matteo è (forse?) l’unico possibile.