TRAMA
Un gruppo di guerrieri scelti si trova catapultato su un pianeta sconosciuto. Scopriranno di essere carne da macello per alieni a caccia.
RECENSIONI
In principio fu John McTiernan nel 1987, capace di creare un film di culto sfruttando la monoliticità di Arnold Schwarzenegger in un'abile miscela di generi (guerra, fantascienza, action e horror). Non immune al passare del tempo (oggi risulta piuttosto prevedibile e sconta ingenuità), Predator è stato molto imitato, ha dato vita nel 1990 a un sequel (Predator 2 di Stephen Hopkins) e successivamente a due cross-over (nel 2004 Alien vs. Predator di Paul W.S. Anderson e nel 2007 Aliens vs. Predator 2 dei fratelli Strause), tutti bocciati aspramente da critica e appassionati nonostante incassi più che dignitosi. Seguendo la moda del periodo, pare che ora sia giunto il tempo del reboot, termine inglese che significa riavvio. Un nuovo inizio, quindi, con l'evidente scopo di riavvicinare al pubblico una saga ormai bollita. Un po' quello che è successo per Batman, James Bond e Star Trek. L'operazione è stata affidata al poliedrico Robert Rodriguez, già autore della sceneggiatura per un "Predator 3" poi non realizzato, che si è ritagliato il ruolo di produttore e ha scelto come regista, in una rosa di sette candidati, Nimród Antal, dietro la macchina da presa negli apprezzati Kontroll e Vacancy. Il risultato è uno dei film più brutti della stagione. Tolto un buon incipit in medias res e un elegante combattimento tra uno dei mostri e l'orientale del gruppo, infatti, il resto del film è un'accozzaglia dei più triti luoghi comuni: protagonisti da barzelletta con un cattivone per ogni nazionalità (al confronto le caratterizzazioni dei feroci criminali di Con Air paiono sofisticate), un ovvio countdown, le battutine da caserma e le immancabili botte da orbi nel gran finale pirotecnico. Il tutto "ravvivato" da improbabili colpi di scena e dinamiche di gruppo da asilo nido. Il problema non è tanto la regia di Antal, che pur in assenza di un'atmosfera perturbante prova a valorizzare la location selvaggia e claustrofobica, ma la disastrosa sceneggiatura. Il guazzabuglio narrativo non riesce infatti a creare quel minimo di empatia necessario per consentire allo spettatore di stare al gioco e passare al fotogramma successivo, ma alterna azione frenetica, dagli esiti ovvi, a dialoghi noiosissimi, preoccupati di sottolineare continuamente il poco che c'è da capire. Il fatto che alla fine si parteggi per le crudeli forze aliene, sperando che facciano al più presto piazza pulita, non è di sicuro un buon segno. Né depongono a favore gli ammiccamenti iniziali a "Lost", il datatissimo look rasta dei mostri (fuori tempo massimo anche per un nostalgico revival) e le facce inespressive, o esagitate, del cast, a cominciare da un Adrien Brody fuori parte più che mai (non basta corazzarsi di muscoli per essere un credibile ammazzatutti). Tra i punti interrogativi suscitati dal film, pochi a dir la verità, uno solo continua a esigere risposta: cosa spinge dei mostri in grado di rendersi invisibili a lanciarsi in un fallimentare corpo a corpo?
Con la produzione e un contributo non accreditato alla sceneggiatura di Robert Rodriguez (che presta anche il “suo” Danny Trejo), la saga fa un passo indietro e guarda al primo e migliore capitolo firmato da John Mctiernan, ignorando (a tutti i livelli) gli altri. Più che un sequel, un remake/reboot: La Pericolosa Partita nella giungla, la messinscena nuda e cruda di una caccia spietata. Lo script degli esordienti Alex Litvak e Michael Finch lavora su due sottotesti: la similitudine fra guerrieri terrestri ed alieni, da cui il titolo del film al plurale, e la dialettica fra il protagonista di Adrien Brody in inedita versione muscolare e la figura femminile, dove il primo pensa solo alla sopravvivenza, fino a rinvenire i sacrificabili, e la seconda fa da “buona” coscienza. L’azione è principe, eccitante, materica, con qualche eccentricità ben accetta (il duello all’arma bianca, fra samurai, nell’erba) ed anche una breve alleanza allegorica fra gli umani ed un predator con il costume originale del 1987 (passo che fa tanto Terminator 2). Peccato che l’ungherese-losangelino Nimród Antal (scelto da Rodriguez per i suoi Kontroll e Vacancy) non sia un talento: da bannare, ad esempio, il suo vezzo di mostrare prima il piano di ascolto a bocca aperta, poi l’oggetto dello stupore che resta ingiustificato. Peccato anche per una sceneggiatura che, verso il finale, gioca di usurati colpi di scena da thriller (con un personaggio che non è chi dice di essere).