Drammatico, Thriller

POSH

Titolo OriginaleThe Riot Club
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2014
Genere
Durata107'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Ricchi, arroganti, cinici e viziati. Sono dieci studenti dell’università di Oxford ammessi nello storico ed esclusivo Riot Club, fondato nel lontano 1776. I ragazzi aspirano soltanto a lasciare un segno sulla scia delle figure leggendarie che ne hanno fatto parte, a diventare “celebri”. Ma in una serata, gli animi si scaldano e complice un vortice di alcool, un finale inquietante rovina la loro reputazione. Due le strade possibili: accusare il club per discolparsi, rischiando di essere estromessi per sempre dal giro di chi conta o barattare il proprio silenzio in cambio di un brillante futuro.

RECENSIONI

Nata danese sotto il segno del Dogma (Italiano per principianti, per dirne uno) e poi naturalizzata britannica (An Education, per dirne un altro), la regista Lone Scherfig rivela con il suo ultimo film, Posh, una certa continuità con i lavori precedenti. Ma questa costanza, più che coerenza autoriale, emerge sempre più come limite espressivo del suo cinema.
Posh si muove all’interno di un contesto piuttosto intrigante, che se da un lato appare estraneo (se non proprio straniante) allo spettatore italiano, dall’altro risulta invece decisamente familiare al pubblico inglese. Ambientato ad Oxford, il film ritrae quel microcosmo autoreferenziale e anacronistico tipico delle cattedrali dell’accademia britannica (poco cambierebbe se fossimo a Cambridge o a St. Andrews), una campana di vetro che si erge sulla vertigine della cultura alta, che si consolida tramite una struttura disciplinare di ferro, ma la cui apparente immobilità è percorsa da una costellazione di voci contrastanti. È il fenomeno delle “society”, delle congreghe, delle associazioni, dei club, fortemente radicato nella cultura accademica britannica al contrario di quella italiana. Alcuni di questi gruppi sono pubblici, aperti, consacrati alla passione per una certa disciplina, sport o passatempo. Altri sono chiusi, semi-segreti, politicamente schierati e animati da pulsioni, eccessi e omertà massoniche. Nella sua struttura di finzione, Posh rappresenta uno di questi ultimi, il Riot Club, storica e ambitissima congregazione composta da dieci – e solo dieci – selezionatissimi partecipanti, chiaro simbolo di una società competitiva, fortemente aspirazionale ed esclusiva. Il Riot Club è venerato e temuto per le sue stravaganze pittoresche e la violenta noncuranza verso il prossimo. Le motivazioni psicologiche dietro tali eccessi vanno a comporre la (timida) critica sociale portata avanti dal film e vengono dichiarate ad alta voce allo spettatore, senza badare troppo a sottigliezze e non-detti. Rampolli di alto lignaggio e eredi di famiglie facoltose, i membri del club subiscono le aspettative che famiglia e società impongono loro, generando un’ansia che si trasforma presto in eccesso e violenza. Sicuri di avere le spalle parate (dall’importanza del loro nome, dall’entità dei loro conti in banca), vivono i loro atti sconsiderati – umiliazioni, devastazioni, colluttazioni – come un disperato canto del cigno per una spensierata giovinezza che sta per terminare: una volta laureati, saranno destinati a vite grigie di responsabilità, a ruoli professionali e sociali importanti che non permetteranno sgarri.

Ma più che alla pressione sociale esercitata sulle giovani generazioni, la “critica sociale” (virgolette dovute) del film si indirizza soprattutto verso il forte classismo britannico. Posh ci presenta la netta divisione fra alta borghesia e working class con uno schematismo e un didatticismo degni di un sussidiario da scuola elementare: le classi alte sono necessariamente spregevoli, viziate e immorali; il popolino è indifeso, bonario, etico. L’unico personaggio che tenta di mediare fra le due parte è Miles (interpretato da Max Irons, figlio di): ricco di nascita, ma sensibile nei confronti dei meno abbienti, temporaneamente trascinato nell’immoralità dal Riot Club, ma capace di redenzione finale. Ancora una volta, però, la scrittura è troppo semplicistica per potergli donare una profondità umana convincente e per permettere al pubblico di empatizzare con la sua vicenda, i suoi dubbi, le sue debolezze. A questo proposito è interessante mettere in parallelo Miles con Jenny Mellor, protagonista di un altro film della Scherfig, An Education, interpretata da Carey Mulligan. Pur partendo dalla direzione sociale opposta (Jenny è ragazza working class gradualmente corrotta dai fuochi fatui dell’alta società inglese), An Education disegna una parabola etica molto simile a quella di Posh. Anche in quel caso, una narrazione semplicistica riconduceva classi e atteggiamenti sociali a due assunti etici compartimentalizzati: buoni contro cattivi. Vuoi una scrittura leggermente più sfumata e una protagonista più vicina al sentire del pubblico medio (è più facile empatizzare se lei è indifesa e indigente), An Education riusciva però a suscitare una qualche partecipazione emotiva, che in Posh rimane invece largamente assente.

Il film rimane dunque ingabbiato all’interno di queste dicotomie didascaliche, aggravate dalla pressoché totale mancanza di sottigliezza (nulla è mai suggerito, tutto è spiegato a chiare lettere nei dialoghi dei protagonisti). Questo tipo di scrittura limita fortemente anche le velleità stilistiche della Scherfig la quale, partendo dal testo teatrale originale e scegliendo di girare quasi tutto in interni, mira a creare un’opera claustrofobica e soffocante. Il tentativo risulta chiaro soprattutto nella lunga scena centrale del film, quella ambientata al pub, in cui una cena del club sfugge di mano ai suoi partecipanti e termina nella devastazione e nel sangue. L’idea della regista vuole qui essere autoriale: rinchiudere tutte le tensioni dello scontro fra classi all’interno di una stanza, lasciarle montare e farle esplodere per osservarne le conseguenze estreme. Ma è proprio così che il film diventa un Festen per fighetti, un teatrino di rivelazioni e sconvolgimenti tutti attorno ad un tavolo, smussato dai bei visi dei protagonisti e da una scrittura che non fa paura a nessuno. La Scherfig tenta in qualche modo di rispolverare le origini Dogma del suo cinema, ma in questo modo magnifica solamente quelli che forse sono stati i limiti del suo cinema fin dall’inizio. Se il suo Italiano per principianti ebbe infatti un merito di originalità innegabile all’interno del Dogma – una commedia in un mare di drammi – in prospettiva può anche essere tacciato di una certa ruffianeria, che è la stessa che limita oggi la sua espressione artistica: voler essere al tempo stesso “violenta” e “carina” – “carina” nella forma e “violenta” negli assunti – ma risultando infine solo superficiale e innocua.