TRAMA
Ultimo dell’anno: la nave da crociera Poseidon viene investita e rovesciata da un’onda a dir poco “anomala”. I soliti sopravissuti cercano di rimanere tali. Remake dell’omonimo classico catastrofico del ’72.
RECENSIONI
Movimento di macchina articolatissimo (e truccato) che emerge dagli abissi marini, con una combinazione panoramiche-carrellate gira intorno al Poseidon, si insinua nelle sue intercapedini per inquadrare il protagonista, continua il suo travelling, ritrova il protagonista per mostrarcelo in primo piano e chiude infine con un’ultima panoramica su un tramonto mozzafiato. Volendo darsi al giochino pseudo-critico del “nella sequenza d’apertura c’è già tutto il film”, direm(m)o che il Poseidon e il genere catastrofico tutto sono in effetti racchiusi nel piano sequenza d’apertura: cinema dello spettacolo puro, della gratuità tecnica, dell’epica dei grandi spazi grandangolari che concede un piccolo ma dovuto ruolo all’intimo PP dei personaggi. Così è quando le cose vanno bene, quando cioè il regista sa quello che fa e gli è dato di lavorare su una sceneggiatura decente, con personaggi dalle psicologie sommarie ma passabili e dialoghi che non gridano vendetta. Purtroppo il Poseidon non soddisfa tutte le suddette condizioni. Il problema non è tanto la regia di Petersen, che a volte sbanda vistosamente ma non cappotta (quasi) mai: la gestione della grandeur digitale è tutto sommato buona e anche le solite sequenze di “tensione catastrofica” (cunicoli inondati, salti nel vuoto, porte che non si aprono) sono girate con prevedibile mestiere. Il problema è lo script del signor nessuno Mark Protosevich: se un’onda alta sessanta metri ribalta un transatlantico e i cadaveri si accatastano a dozzine sul soffitto-pavimento, un personaggio non può chiedere a un altro - “la situazione è grave?” (sic!) -. Non scherziamo. E che dire delle dinamiche interpersonali date per scontate ma non giustificate? Vabbè che ci sono decenni di codificata filmografia hollywoodiana ad autorizzare certi sviluppi narrativi, ma insomma, come e perché nasce il reciproco affetto tra Richard Dreyfuss e Mia Maestro? Che “tipo” è, almeno a grandi linee, l’eroe-per-dovere-di-sceneggiatura Josh Lucas? Due delle troppe domande senza risposta che rischiano di infastidire anche il meno smaliziato degli spettatori. Per un prodotto “populista” (in senso buono) da 175 milioni di dollari, non è esattamente il massimo.

Probabilmente c'è un tempo per ogni cosa e non tutto, se riproposto senza varianti, può permettersi di tornare. I "disaster movies" appartengono infatti agli anni Settanta e L'avventura del Poseidon, del 1972, ne fu uno dei pilastri. Ripresentarlo nel nuovo millennio, dopo anche un tv-movie del 2005 ma soprattutto Titanic di James Cameron, è un'azione pressoché suicida. Certo, la storia è senza tempo, con una gigantesca onda che capovolge un transatlantico obbligando un gruppo di superstiti a cercare una via di fuga tentando di risalire dall'interno verso la superficie, ma la domanda è sempre la stessa: perché rifare, copiare, imitare, anziché creare, oppure, al limite, ridistribuire l'originale? Ovviamente per i produttori l'idea di ancorarsi a un immaginario consolidato è rassicurante e sulla carta il rischio di un insuccesso è limitato, ma l'operazione commerciale può avere senso solo se sostenuta, oltre che da un marketing massiccio, anche da qualche idea innovativa in grado di aggiornare una storia ai tempi. Il nuovo Poseidon, invece, si limita a pescare a piene mani nel già visto. Wolfgang Petersen ci mette la sua indubbia professionalità e si vede che con le insidie dell'acqua ha una certa esperienza (U-boot 96, il film che diede al regista tedesco la ribalta internazionale, e La tempesta perfetta), ma l'efficacia degli effetti speciali (anche se l'acqua virtuale ha minor peso di quella reale, e ogni tanto si vede) non riesce a sopperire alla povertà dell'impianto narrativo. Il lato umano, infatti, è di sconsolante vacuità con i soliti ricchi, antipatici e bellocci per cui il massimo della vita è sedere al tavolo del capitano, scambiarsi promesse attraverso anelli e smanazzare fiches a un tavolo da gioco. Non può però mancare il contraltare di un paio di poverelli, il cameriere e la clandestina, che, sarà un caso, sono gli unici, oltre al martire di turno, a fare una brutta fine. L'onestà di Petersen è nel dare al pubblico ciò che il genere catastrofico impone: distruzione, sconquassi, esplosioni, voli nel vuoto e inconvenienti a ripetizione. Puntare dritto all'azione senza il riempitivo di inutili preamboli, con solo una decina di minuti iniziali per presentare sbrigativamente gli scialbi personaggi, si rivela però un'arma a doppio taglio perché il ritmo sostenuto, senza la forza di caratterizzazioni con cui poter empatizzare, rischia di girare a vuoto. La corsa a ostacoli, con salvataggi improbabili e sempre qualcuno che nel marasma generale sa cosa fare e soprattutto come farlo, finisce quindi per anestetizzare, o comunque ridurre, la partecipazione. La colpa è anche di dialoghi spesso improponibili, in cui le ovvie esclamazioni di disagio sono condite con stridenti botta e risposta finalizzati a placare i ridicoli conflitti tra i personaggi. Tra i momenti migliori, l'attraversamento sul vuoto nella tromba dell'ascensore, con una cattiveria superiore alla media, il claustrofobico passaggio nello stretto condotto dell'aria e il "titanico" piano sequenza iniziale che presenta, con abile sintesi e grande perizia tecnica, il protagonista e la situazione di partenza. Il resto è routine. Il che non è per forza un demerito, ma non arriva a essere un merito.

La moglie del defunto Irwin Allen (creatore dell’originale, L’Avventura del Poseidon) è produttrice esecutiva di questo remake poco necessario (e non unico: già l’anno prima c’era stato il film TV Poseidon – il Pericolo è già a Bordo), che cambia i personaggi e le situazioni di pericolo, pur partendo dalla stessa idea di base del romanzo di Paul Gallico. Di quel caposaldo del cinema catastrofico la pellicola di Wolfgang Petersen dimentica due fattori essenziali: 1) per quanto sopra le righe, il disegno dei personaggi era corposo, non si riduceva a pennellare pallide ombre di un videogioco; 2) c’erano (anche) percorsi allegorici, nel momento in cui “l’esodo” dei superstiti era guidato da un prete controcorrente. Il regista di allora, Ronald Neame, non cincischiava troppo con la presentazione dei personaggi e si dava alla suspense: nonostante un prologo che, nella coralità di caratteri, ha lo spessore avvilente di una puntata di “Love Boat”, per fortuna Petersen, in seguito, ne segue le orme e porta al riparo la sua nave, per quanto mercantile e da riporto. Infila un pericolo dietro l’altro e dà forma a più sequenze ansiogene dell’originale, forte anche di effetti speciali più elaborati.
