TRAMA
RECENSIONI
La Breillat, dopo la banalotta e del tutto superflua ubriacatura ombelicale di SEX IS THE COMEDY torna al suo cinema più consueto e, con unattenzione figurativa degna di nota (la sequenza dello specchio in discoteca che spacca lo schermo in un artificiale split screen, colpo di genio; il candido vestito della protagonista come in ROMANCE che si sporca di sangue; il corpo femminile plasticamente riverso sul letto a evocare, tra gli altri, i lavori di Man Ray; la vagina pittorica à la Courbet; la forza scatenata del mare in tempesta) ripropone il crudele faccia a faccia tra i sessi: il desiderio femminile vs il sacro terrore maschile di fronte al mistero clitorideo.
Lo sguardo del gay interpretato da Rocco Siffredi (il gioco del rovescio per limpenitente, professionale scopatore di donne è facile ed ovvio) viene usato per accostarsi in modo disinteressato e quasi clinico a un corpo, quello femminile, per il quale luomo ostenta prima ripulsa e poi inevitabile curiosità. Pagato per guardare laddove sono inguardabile e dire quello che vedi, il protagonista scava anche nel fondo della propria sessualità, confrontandosi dolorosamente con la paura del mistero del sesso femminile, del sangue mestruale (forse perché quel sangue sgorga senza che alla donna venga inflitta alcuna ferita?) e con lanonimità del proprio pene che varrebbe, in un corpo di Donna, quanto un innocuo tampax, poiché il coito non risiederebbe nella fisicità dellatto ma nel valore che Lei gli attribuisce. La regista, comè sua consuetudine, sonda i limiti del filmabile (ma parando i possibili colpi in entrata il sottolineare alla fine dei titoli di testa il carattere finzionale di ciò che andiamo a vedere -) e, esponendo il suo arzigogolato trattatelo sullOsceno femminino (Osceno che nasce dallo sguardo delluomo - la cui malattia si chiama Donna -) e sulle contraddizioni e i tormenti di un sesso, con uso di flashback- agnizioni e circostanziati radicalismi retorici, spoglia lopera di ogni orpello scenografico puntando lattenzione su elementi scarni e stilizzati allestremo, illividendo con toni scientemente mortuari recitazione e messinscena. Convinta (giustamente) che loscenità alberghi nello sguardo e non nella cosa guardata, spingendo lartificio non solo sul piano prettamente visivo e rappresentativo ma anche su quello squisitamente dialogale, mettendo in bocca ai suoi personaggi - oltre ai fluidi corporali - un parlar forbito e studiatamente antinaturalistico, lautrice porta avanti il suo teorema non senza ironia e con qualche tocco di ragionata demenzialità (il rossetto nelle parti intime della donna, lassorbente usato come una bustina da the con seguente degustazione dellinfuso), non temendo lo straniamento da voce off (nelloriginale quella della stessa regista) e la pedanteria di didascalie che non nascondono lorigine letteraria del soggetto.
Tanto insistente elucubrare, in integrale salsa femminista e condito dal dogma del mostrare tutto ad ogni costo, potrà anche risultare tedioso o irritante ma PORNOCRAZIA mi pare film di sanadisturbata presunzione da non sottovalutare perché a tanto rigirarsi nel proprio brodo riesce a mescolare racconto (im)morale, sapiente lavoro sulle immagini e teoria (non solo sessual-sociologica ma anche) filmica con in più il merito per la cineasta (che, quanto a pippe mentali, dà punti a tutti Moretti in primis -) di riuscire a realizzare esattamente e letteralmente quello che vuole. Mica da tutti, perbacco.
L'unico pregio dell'ultima provocazione di Catherine Breillat sta nella scelta di temi spinosi e problematici (l'eterno conflitto tra i sessi e l'esplicitazione del concetto di oscenita') e nel trattamento poco incline al compromesso. Non basta pero' mostrare cio' che il cinema in genere nega, oscurando insieme alla morale imperante una buona fetta di vita, per far funzionare il film. La regista, infatti, si erge a depositaria dell'Unica Verita' e imbastisce una vicenda che ha esclusivamente l'obiettivo di suffragare le sue tesi femministe (tutti sono in fondo perdenti, la donna nel buco nero della sua potenza intellettiva, l'uomo nei suoi 20 e passa centimetri di orgoglio ferito). I due unici protagonisti diventano cosi' manichini privi di qualsiasi soffio vitale, con il solo scopo di farsi portatori di elucubrazioni all'insegna della grevita'. Ecco quindi tutta una serie di botta e risposta ad effetto ma privi di spontaneita' che, decontestualizzati, potrebbero anche ispirare qualche riflessione non banale, mentre nella messa in scena adottata perdono ogni possibile implicazione e, anzi, finiscono per ammantarsi di ridicolo. Non e' percio' tutta colpa di Rocco Siffredi (un po' si', pero'), e della sua staticita' spacciata per corrucciamento, se in piu' di un'occasione l'imbarazzo travalica lo schermo e raggiunge lo spettatore. Chiunque, infatti, alle prese con battute tipo "La fragilita' delle carni femminili impone il disgusto della brutalita'?" oppure "Il sesso femminile ha una pelle infetta come quella della rana che però almeno ha il buon gusto di essere verde" avrebbe non poche difficolta' nella resa espressiva. Piu' sciolta la bella Amira Casar, perlopiu' impegnata in pose plastiche di evidente ispirazione pittorica. Maldestro il montaggio, con qualche raccordo grossolano, curata la fotografia, piu' che didascalica la voce fuori campo (della stessa autrice nella versione francese) e pessimo il doppiaggio. Non mancano i momenti forti (penetrazioni con rastrelli, infusi al mestruo, vagine truccate con il rossetto, dettagli ginecologici di bambine), ma sembrano piu' che altro stratagemmi gratuiti per rendere il film vendibile ed impedire al pubblico di addormentarsi. Irritante, anche perche' buttato la' senza alcun approfondimento, il pretenziosissimo taglio da parabola educativa con ambizioni cristologiche (il ricorrere dei crocifissi, il sudario insanguinato). Grande assente, e se ne patisce non poco la mancanza, l'ironia. Il titolo italiano, dal romanzo omonimo della stessa regista, e' un termine utilizzato dai greci per indicare l'influenza negativa delle donne in politica. L'originale, "Anatomie de l'enfer", indica invece che "se l'inferno ha un'anatomia, e' quella di una donna".
p>Giocavamo al dottore ed io ero la paziente. La donna è la malattia dell’uomo.
Guardare ma non toccare
Un incontro in discoteca –l’ennesima lametta che danza intorno alla vena bluastra- innesca la spirale della perversione: lei vuole essere guardata dove è inguardabile per demolire il muro dell’oscenità (Apri le gambe! si diceva in BLUE VELVET), urlando l’ingiustizia del suo perenne utilizzo strumentale in chiave maschilista. A lui non piacciono le donne e si impegna a non toccarla, metaforicamente fossilizzandosi nella posizione di spettatore (da cui l’urgenza della visione: “Era ora”, dirà quando si spoglia); è il punto di origine di uno scioglimento destabilizzante, che si dimena tra le sbarre dello sguardo (“l’attesa fa parte del piacere”) nel progressivo, impercettibile protendersi verso l’azione. Benvenuti in the other side, nell’oscurità attraverso lo specchio, dove per ricongiungersi alla fessura natale se ne coglie finalmente il significato: tutto ciò è semplicemente terribile.
Il monologo della vagina
Si stende la volgarità dell’oceano, la Grande Madre, in un nonluogo letterario riscaldato da cantilena amniotica; la voice off femminile si esprime ermafroditamente al maschile, incastrando nella storia innesti memoriali/onirici di pura e deviata visionarietà. E’ la vagina che parla e adesso ha qualcosa da dire, fare, mostrare: si tratta di un teorema nel riflesso della pelle lattea, al confine scottante tra eccitazione e putredine (tutta questione di sguardi). Penetrando (e penetrata) nel taglio delle cos(c)e il sesso è piantato come un germoglio e pianto come un bambino, sciogliendo la freddezza dello sguardo in dolorosi singhiozzi. Lei è una ferita sanguinante che recita il disagio della propria condizione, lasciandosi assaggiare in un boccone mestruale; il profano calice rosso cui i protagonisti si abbeverano è un rituale d’assimilazione (“il sangue dei propri nemici”) affine al cannibalismo, dove per esorcizzare la materia odiata la si nasconde dentro di sé. Solo una provocazione: l’arte fuorviante del vedere tutto è piegata per suggerire che il corpo femminile è un guscio nudo di significato, come dimostra luminosamente la scena della masturbazione pietrificata (il piacere non nasce dall’oggetto ma dalla mano che lo guida). La parola, di troppo, si eclissa: si sfilaccia il filo del discorso, la cui vacuità trova riposo nel congiungimento sessuale. Una penetrazione disinfetta apparentemente quella ferita ma forse la trasmette soltanto al suo interlocutore: se si tratti di guarigione o epidemia, saranno gli ultimi fotogrammi a confonderlo del tutto, in uno squarcio (ancora) onirico sfuggente nel significato.
L’oscen(/m)o
Parlasi di Rocco, ovviamente. Amira Casar, volutamente non bella, semina un patrimonio di sensualità in costante posa da galleria fotografica (uno Schiele d’annata con l’aggiunta essenziale della carne) e, affidate le intimità ad una controfigura, si impegna a reggere l’esilità narrativa con il peso dello sguardo (si segnala una fase masturbatoria ad occhi sbarrati, che proprio non vuole andarsene dalla mente). Costui, invece, è un pesce dentro l’acqua (pardon) nelle sequenze più spinte ma si rivela clamorosamente disagiato ovunque non si utilizzi il gioiello di famiglia; mentre la sua intonazione veglia gloriose memorie della scuola elementare (il doppiaggio non è tutto nella vita) un’unica espressione è chiamata a dipingere un arrapato menefreghista (e viceversa) ma si rivela puro, semplice, intonso marmo ancora da lavorare. Con una punta di volgarità. Nonostante un ruolo particolarmente sporcaccione si mantiene la certezza che un attore l’avrebbe interpretato meglio.
Sex is tragedy
Il ritorno in sala dell’enigma Catherine Breillat, celebre pornocrate della prima ora, mantiene un’idea precisa nella mente: l’uomo ha paura della donna, la donna è pronta a dimostrarlo, la presa di coscienza sarà lancinante. In queste tre fasi si consuma l’impalcatura di una tragedia da camera, necessariamente esemplare ed atemporale (i nomi sono incognite), smaccatamente improntata su un gelido spartito intellettuale. PORNOCRAZIA è un bluff osceno o una delizia seminale, a scelta, per i pochi che si accorgeranno dell’estiva sortita in sordina; il film non lancia la provocazione totalmente nel vuoto come illustri e scandalosi colleghi (il Clark di KEN PARK: trasparente) ed imprime su pellicola un senso dell’immagine talvolta sconcertante, risolvendo situazioni comuni in improvvise sterzate pittoriche (il metaforico sgozzamento della donna, lo specchio arrugginito che la tinge di sanguigno) che lustrano gli occhi ormai abituati alla nudità. Gli organi interni dell’opera sono solidi e riconoscibili, declinati secondo un personalissimo piglio poeticoletterarioerotico, dunque uno stile in piena regola; ad inceppare il vibratore calano alcune sequenze nettamente sbagliate (Rocco e il giardinaggio: un estratto dal porno trash più deteriore) ed in generale un’ansia di trasmettere la propria idea che supera in verità la facciata di provocazione. Una contraddizione: la Breillat indugia sui genitali destreggiandosi sulla visione dell’osceno, per squarciare l’ipocrisia ed intonare il senso (sesso?) della libertà. Poi, all’improvviso, imbocca la sua protagonista di una formula da lezione frontale (di quelle che dovremmo mandare a memoria per essere tutti più buoni) della serie “gli uomini ci picchiano con le loro cinghie, con i loro bastoni...”. Ma il nostro sguardo, ormai adeguatamente stimolato da una galleria perversa in accumulazione ipertrofica, non aveva alcuna voglia di essere più buono. Un’ex rivoluzionaria in doppiopetto? La teoria stravagante di una manicomiale sessuologa? Su tutto e tutti, il dubbio di artificiosità che cala sul film è l’unico vero scandalo: l’innegabile maestria stilistica non arriva mai a predicare appieno un cinema genuino, che soltanto quando si libererà da tutti i suoi vezzosi vizi diventerà grande per davvero. Per ora è un buio uterino appena stuprato da lampi di luce accecante.