TRAMA
La storia vera di Philomena Lee, una donna irlandese che negli anni ’50 si vede sottrarre il figlio, dato in adozione negli Stati Uniti, e per cinquant’anni non smette di cercarlo.
RECENSIONI
L'arte del racconto
Una storia vera emotivamente devastante, un regista di sicuro mestiere, una protagonista strepitosa, che volere di più? Il film confezionato per gli Oscar sembra bell’e che pronto. Certo, se fosse così semplice creare un’opera solida e perfettamente equilibrata nel dosare il dramma con la commedia, tutti quelli che ci provano, e sono tanti, riuscirebbero nell’intento. Invece bisogna dare atto a Stephen Frears, sempre abile nell’esporre con autorevolezza un punto di vista laico e non ideologico, di essere riuscito a mettere in scena con toni miracolosamente calibrati una storia che poteva diventare un drammone a senso unico. Al riguardo geniale l’idea della sceneggiatura di giocare a carte scoperte ironizzando sui feuilleton strappalacrime che legge la protagonista, o sul giornalismo sensazionalistico che anima l’articolo che deve scrivere il co-protagonista, stratagemmi narrativi per esorcizzare l’impatto ad alto tasso melodrammatico del racconto.
Ed è proprio la sceneggiatura, giustamente premiata al Festival di Venezia dove Philomena è stato presentato in Concorso, uno dei punti di forza della pellicola, in grado di trovare un esemplare bilanciamento che consente di mantenere sempre credibile il lato drammatico stemperando ogni momento lacrimevole con una nota leggera o ironica. La ricetta Disney (“per ogni sorriso una lacrima”) applicata a un live action. Ovviamente, come da usurato copione, i contrasti non possono mancare: la donna ignorante, spiccia e anziana vs l’uomo di cultura, sottilmente caustico e piacente, il Regno Unito vs l’America, la fede religiosa vs la visione laica, la rabbia vs il perdono, la ruvidità vs la gentilezza, tutti aspetti che la strana coppia protagonista incarna e cavalca con grande maestria. Poi, una certa furbizia aleggia: un tema forte in cui la ragione è da una sola parte e le cui conseguenze ingiuste non possono lasciare indifferenti, le battute fulminanti ad hoc, qualche cliché nelle caratterizzazioni, una protagonista a cui non si può non volere bene fin da subito, la facilità di alcuni snodi mascherata da fluidità, ma Frears riesce sempre a fermarsi un momento prima che il risultato strida o cada nello stucchevole.
Determinante all’efficacia del risultato il carisma di Judy Dench, attrice strepitosa per un ruolo che sembra cucito su misura per lei e capace di sfumare gli aspetti per cui è diventata famosa (è dall’Oscar per Shakespeare in Love che se a Hollywood c’è bisogno di una over 60 altera e dall’eloquio mordace chiamano lei); così come è perfetto Steve Coogan, che oltre a fungere da contraltare ideale, dall’aplomb very british, firma anche la sceneggiatura insieme a Jeff Pope. Non sbaglia un colpo nemmeno la colonna sonora di Alexandre Desplat, che enfatizza, suggerisce, stimola e anticipa senza invadere. Per chi è predisposto, difficile in più punti frenare la commozione, ma anche in questo caso senza eccessive forzature. Del resto con una storia così potente annullare il lato emotivo sarebbe stato un vero e proprio tradimento nei confronti del pubblico.
In parte, è la copia in negativo di Magdalene di Peter Mullan: per quanto quello era di pancia, rabbioso e fuori misura, questo è ipocrita, molle ed indeciso nel gridare (o non gridare) la sua rabbia contro le infanzie deturpate dagli istituti cattolici gestiti da suore. L’ex - arrabbiato Frears, cui non abbiamo mai fatto una colpa di non essere come Ken Loach o Mike Leigh e di avere frequentato registri, generi ed ambienti diversi, mette in scena un dramma borghese, nel senso deteriore e non classista del termine, ovvero rappresentazione politica di comodo, dove si disamina un argomento spinoso realmente accaduto, testimoniato nel libro dello stesso Martin Sixsmith (interpretato dal comico Steve Coogan, anche sceneggiatore e produttore, indeciso fra serio e faceto), irrorando di ingredienti rassicuranti (la Philomena di Judi Dench, insopportabilmente amabile semplice proletaria saggia di buon cuore; il buddy movie con il dandy snob di Martin Sixsmith: piacevole all’inizio, altrettanto insopportabile una volta scoperte/non-scoperte le carte) e finendo con colpo al cerchio ed alla botte o piede in due scarpe, senza mai approfondire l’argomento. Il finale, infatti, mostra il giornalista “senza-dio” incazzarsi e la fedele frenarlo nel nome del perdono: un’analisi meno grossolana avrebbe saputo conciliare le parti ampliando i punti di vista, magari immettendo anche quello delle suore. Chi lancia il sasso, come delazione, e poi nasconde la mano, non vuole urtare e al contempo puntare il dito in vena di gossip. A parte questo, tutta l’opera si fonda sulla commedia ed il dolore di una madre, quest’ultimo presentato più volte in modo ricattatorio sotto forma di un film amatoriale super8 della vita del figlio: poteva essere un’idea espressivamente notevole (la madre che si fa “un film” della vita del figlio) ma scopriremo che è solo un’anticipazione.