Drammatico, Thriller

PETIT PAYSAN

Titolo OriginalePetit paysan
NazioneFrancia
Anno Produzione2017
Durata90'
Musiche

TRAMA

Giovane allevatore di mucche da latte, Pierre è legato anima e corpo alla sua terra. L’amore per le sue mucche rappresenta il pendolo della vita di Pierre, scandita dal rapporto conflittuale con la sorella, veterinaria incaricata al controllo sanitario della regione. Ma il futuro dell’azienda familiare è messo in pericolo quando un’epidemia vaccina si diffonde in Francia, finendo per colpire una delle sue mucche.

RECENSIONI

La campagna francese è uno dei luoghi ricorrenti nel recente cinema d’oltralpe, uno spazio pensato come antitesi rurale all’immaginario parigino centralizzato. Il problema è che questa antonimia viene puntualmente costruita a partire da uno sguardo spiccatamente urbano, che nel modellare i connotati narrativi della società rurale non riesce mai a celarne il pregiudizio e da cui trapela chiara la convinzione di una fondamentale superiorità urbana. È così che i campagnoli sono gente che veste con camicie a quadri, un po’ fuori dal mondo ma pieni di principi, non pienamente in controllo dei propri istinti ma fondamentalmente buoni. E la campagna è essenzialmente un luogo di rieducazione per il cittadino: un luogo in cui arrivare riluttanti, da imparare ad apprezzare, ma da cui comunque fuggire. In parte o totalmente, sono questi gli stereotipi alla base di Benvenuti al nord (probabilmente il film capostipite), La famiglia Bélier (a cui si accompagna una sconcertante rappresentazione della disabilità), fino a Normandie nue, ultimo film di Philippe Leguay (Le donne del sesto piano, Molière in bicicletta) ancora inedito in Italia.

Il merito maggiore di Petit paysan, opera prima di Hubert Charuel, è probabilmente quello di riportare lo sguardo al cuore della campagna francese partendo da una sensibilità pienamente interna al suo contesto sociale ed emotivo, affrancandosi finalmente da ogni impostazione sottilmente denigratoria. L’opportunità è inscritta nella biografia di Charuel, che ambienta il film nella fattoria in cui è cresciuto e struttura la storia a partire da un trauma infantile: la fobia per la cosiddetta “sindrome della mucca pazza” che ha terrorizzato gli allevatori (e i consumatori) di tutta Europa. È dunque muovendosi da una conoscenza intima del territorio e delle sue pratiche che Charuel mette da parte la commedia, frequente pretesto di genere per giustificare la ridicolizzazione dei personaggi e del loro contesto, e trasfigura invece la memoria di quella specifica paura in un’interessante commistione di dramma naturalistico e thriller paranoico. Charuel filma con cognizione di causa la vita in fattoria, dalla mungitura delle mucche, al parto (reale) di un vitello, ai controlli medico-sanitari sul bestiame. Non c’è stereotipizzazione idealizzata, ma macchinari computerizzati che gestiscono il lavoro e classifiche di rendimento su qualità e quantità del prodotto. Quando un elemento di romanticismo arcadico sembra venir introdotto, incarnato nelle guance tonde e la treccia arrotolata della panettiera che vuol far breccia nel cuore del protagonista, Charuel lo immola flaubertianamente, mortificando le ambizioni della ragazza di fronte al plateale rifiuto del fattore. Se l’impressione di totale naturalezza dello sguardo e del gesto sembra venir raggiunta senza sforzo dall’autore, è anche grazie alla notevole performance fisica del protagonista Swann Arlaud, che si dimostra interprete di grande versatilità. Dopo le recenti prove in costume in Les anarchistes e Una vita, Arlaud si muove con precisione infallibile fra gli animali e dona il suo volto peculiare, quasi alieno, alla rappresentazione di una paranoia montante, che sfocia in una follia perdente che dovrà presto arrendersi alla realtà. Charuel agita le acque dell’osservazione realista punteggiando il film con improvvise impennate di tensione, orchestrando la migliore in occasione del primo tentativo del protagonista di salvare l’intero bestiame: una mucca malata da abbattere a martellate, per celare il delitto nel silenzio, diventa il corpo disperato su cui collidono le contraddizioni del personaggio.

Seppur montati su una struttura narrativa tutto sommato tradizionale, i pregi di sguardo di Petit paysan sono tali da assicurare il pieno funzionamento dell’ingranaggio per almeno due terzi dell’opera. Quello che forse manca è un affondo finale che renda piena giustizia all’intera operazione. Al contrario, nell’ultimo atto la tensione cala per lasciare spazio ad un tono vagamente funereo e la visione cinematografica si fa rassegnata al pari di quella del protagonista. Questo mezzo inciampo finisce per evidenziare i limiti del film. In primis, il mancato sviluppo del potenziale di suspense promesso dalla prima parte del racconto. A seguire, i limiti di indagine in quei frangenti in cui una interessante critica delle istituzioni e della burocrazia sembra far capolino e che, se portata a compimento, avrebbe potuto trasformare il film in un oggetto, anche politico, di grande rilevanza.