Documentario

PER UNO SOLO DEI MIEI DUE OCCHI

Titolo OriginaleNekam Achat Mishtey Eynay
NazioneFrancia/Israele
Anno Produzione2005
Durata100'
Sceneggiatura

TRAMA

Il sacrificio di Sansone e l’assedio di Masada, contenuti nella Bibbia, dicono al popolo ebraico che la morte è meglio della sottomissione. Oggi la storia si ripete, ma i ruoli sono invertiti: Israele e Palestina ai tempi della Seconda Intifada_x000D_

RECENSIONI

Più documento che documentario, ossia certificato di appartenenza a un esatto corpo geopolitico, da sondare internamente per stenderne l’anamnesi, Per uno solo dei miei due occhi vive sul parallelo evocativo; l’ariosa panoramica di Masada, introduzione dei titoli di testa, è la cornice contingente e profetizzante per l’avvio dell’inchiesta not embedded. Avi Mograbi, israeliano nella war zone, con la lingua semplice del montaggio alternato compila invece prospettive complesse: la registrazione tangibile della quotidianità nei territori occupati, infatti, è intercalata dal discorso mitico, discusso e rielaborato, perlopiù in modo frontale - una classe, una visita guidata – a segnalare l’intenzione narrativa bifronte, l’opposizione stilistica tra rilevazione e evocazione. E soprattutto plana l’ombra dell’Apocalisse; attingere alla leggenda è il mezzo per sfiduciare il dato terreno e costringere a rivedere il problema, insomma “sacralizzare” lo scontro, dunque suggerire sottovoce la più estrema delle ipotesi: che le stesse rovinose situazioni bibliche possano ripetersi domani. Fissata la rigorosità dell’intento, e il grado di pervasività – l’indice della suggestione resta sempre alto –, è però nell’applicazione del prospetto che il film soffre di esito controverso; parentesi potenti, dove il reale sconfina nel grottesco mediante il documentario (l’arabo al checkpoint israeliano: “Mi hanno detto di restare in equilibrio su questa pietra”), a contrappeso di svarioni più facili e ritriti, con l’autore che soppesa le domande, sfrangia il punto interrogativo e infine “risponde”. Quando c’è una foto nitida, ma gli si scrive sopra, questa diventa didascalia: ecco perché non conviene tuonare contro l’esercito israeliano, dato che lo scatto già coincide col significato e spiegarlo ha il solo effetto di sbiadirlo. E il moorismo dell’opera è anche la sezione meno fertile: cinepresa ferma sul pianto, precisamente come Sicko, a confidare che lo sguardo bagnato appanni anche l’occhio di chi osserva. All’altro estremo, però, omesso l’artificio, il film spolpa l’osso della questione con un paio di morsi: la telefonata tra il regista e l’amico palestinese – mai in campo -, un campione di “cinema parlato” che conquista gli accenti della discussione teorica sui fati del Medio Oriente; l’estetica della concitazione, camera a mano, in particolare nelle lunghe cronache mobili dall’occupazione israeliana. Un soldato sbatte contro lo schermo: l’asprezza del conflitto.