TRAMA
Mancano settantadue ore alla finale di un campionato internazionale di bodybuilding femminile. Léa Pearl è pronta a gareggiare per il titolo di Miss Heaven. Ma proprio allora riemerge il suo passato: il suo ex-compagno Ben si presenta alla finale con un figlio avuto da Pearl sei anni prima e che lei praticamente non ha mai conosciuto.
RECENSIONI
Dopo essere stata assistente alla regia (per, tra gli altri, Bertrand Bonello, Noémie Lvovsky e Mathieu Amalric) e avere diretto due cortometraggi, Elsa Amiel debutta nel lungo con un film il cui soggetto sembra una dichiarazione d’intenti: ricodificare il ruolo femminile nell’immaginario. Per farlo sceglie un ambiente di solito prettamente maschile (le competizioni di bodybuilding) e stringe ulteriormente il campo ponendo al centro del racconto le possibili variazioni dell’istinto materno. La protagonista è infatti una donna che ha cambiato totalmente vita diventando una bodybuilder di professione in cerca di consacrazione. Il titolo di Miss Heaven potrebbe forse aprirle ulteriori porte. La incontriamo nell’albergo in cui si svolge la competizione insieme al suo manager. A scombinare i suoi piani arriva un uomo con un bambino. Per immergerci nell’interiorità della protagonista la regista evita il più possibile l’uso delle parole e limita i dialoghi al minimo indispensabile. Non evita però di soffermarsi su dettagli d’ambiente, primi e primissimi piani, con una macchina da presa che sondando la superficie nel micro prova a dare espressione e consistenza al non detto. Un processo non privo di interesse anche se faticoso perché sprovvisto di appigli e con la sensazione di una sorta di stallo narrativo che più che ammantare le immagini di significato rischia di girare un po’ a vuoto. Sembra sempre che tutto ciò che potrebbe accadere non accada più per la volontà di lasciarlo intuire che per effettiva necessità dei personaggi. Tanto che quel poco che arriva (il parallelo mamma/supereroe per il bambino, la madre che taglia la carne con i denti per il figlio in una sorta di riscoperta del proprio istinto materno) è spesso gravato dal peso della didascalia. Non aiuta lo sguardo giudicante e mai conciliante con cui l’ambiente del bodybuilding è ritratto: tutti sono tristi o piangenti o rabbiosi o variabilmente sfigati, in un’atmosfera sempre ai limiti del grottesco. La stessa rabbia della protagonista, il rapporto con il manager/padrone/amante, il rifiuto netto nei confronti dell’ex compagno e del figlio, trovano poche giustificazioni narrative in grado di renderli plausibili e sembrano più decisi a tavolino da chi muove le pedine del racconto che nelle corde del personaggio. Tra lungaggini, depistaggi e stridori il risultato convince quindi solo in parte.
