TRAMA
Paterson è un autista di pullman che conduce una vita ordinaria, fatta di riti quotidiani. Ogni giorno, durante il solito giro in pullman osserva e ascolta la vita delle persone che lo ispirano per la sua vera e unica passione, la poesia.
RECENSIONI
A Paterson, New Jersey, c’è Paterson, un autista. Un Paterson per Paterson. Un Paterson-uomo che finisce per coincidere con Paterson-città. Come se l’urbanistica, per l’autista, fosse l’unica forma del possibile e del desiderabile, come fosse lo stato (in ogni senso) della mente. Uno a uno. «È un film che lo spettatore dovrà lasciare fluttuare davanti ai suoi occhi come le immagini che si vedono dal finestrino di un autobus, mentre si attraversano le strade di una piccola città dimenticata». Il finestrino: un luogo da cui guardare il mondo. Una prigione? Giorno dopo giorno, turno dopo turno, Paterson è l’unico orizzonte di Paterson. Perché Jarmusch, ed è questo che ne fa un autore politico, sa che è ogni uomo è, letteralmente, il tempo di cui dispone. La sua libertà. Il suo lavoro. Sapeva che per essere analogici, affastellare pagine e vinili, accumulare feticci e chincaglierie, e poter assaporare ogni goccia di sangue lentamente, come i protagonisti di Solo gli amanti sopravvivono, bisognava essere vampiri, essere oltre il tempo, avere il privilegio di non lavorare. Sapeva quali erano i tempi dell’inoccupato di Permanent vacation, dei Taxisti di notte, il ritmo dell’attesa di Ghost Dog, sicario, le sincopi liberissime del protagonista di Broken Flowers, che campava di rendita pregressa. Quel che significava The Limits of Control. E via elencando. E dunque Jarmusch sa che il confine del pensiero di Paterson-uomo è Paterson-città, sono le strade che attraversa col bus, le passeggiate col cane, il bar che frequenta, le cascate che rimira, il caldo focolare, e punto. Lo sguardo di Jarmusch è placido, non interessato al conflitto, al limite all’incidente. Quello che sceglie di raccontare è la tranquilla routine di un uomo della classe lavoratrice. E quel che la routine produce, come forma di pensiero. La moglie gli parla d’aver sognato dei gemelli, ed ecco che nello sguardo dell’autista cominciano ad apparire, una coppia di gemelli dopo l’altra.
Prime forme del già visto, del ripetuto, del pacato, allucinato ri-vissuto di un film su un autista, driver, interpretato da Adam Driver, film in cui reale e immaginato si scambiano elementi, e finiscono per coincidere, in un circolo infinito, in un loop incestuoso, in un rapporto mappa/territorio dolcemente ebbro, sfiancato, collassato su stesso. Paterson per Paterson, un poeta e la sua Laura (come la musa di Petrarca). E poi coppie di un film visto (i protagonisti di Moonrise Kingdom) che si ripresentano come abitanti del luogo, e film (The Island of lost souls - L’isola del Dottor Mabuse) in cui si riconosce la figura dell’amata. Aneddoti di storia del luogo che insistono sull’oggi. E Jean Dubuffet, citato poi a parole, e prima in ogni lavoretto della moglie. Jarmusch racconta di lavoro, e di poesia, facendo della poesia una forma d’arte che non s’eleva dall’intorno, dal ritmo working class del suo tempo, ma ne gode (o finge di goderne, ed è qui l’abisso del film) e ne fa sintesi, una sintesi in cui l’uomo (quel Paterson stretto in Paterson) fonde reale e pensato, e li confonde. Il tono di Jarmusch è lieve. Non fa dramma di tutto questo. Osserva tranquillo l’orizzonte del pensiero della routine. Ma il film è un elogio delle piccole cose come il suo esatto contrario. Perché quella sveglia naturale la mattina prima delle 6.30, quello sguardo tenero e attonito continuamente dedicato alla compagna, quel ripercorrere con le parole, a cena, il percorso giornaliero, in un ennesimo racconto circoscritto, chiuso su se stesso, e quel vuoto di dialogo tra i due (come se fossero, letteralmente, islands of lost souls), sono offerti ai nostri occhi come doppio segno, come la gioia del compromesso e il suo logoramento, come il tenero accontentarsi e la sua frustrazione. Tanto che il racconto dell’abitudine è interrotto da un numero di incidenti progressivo (la rottura del bus, l’umiliante salvataggio al bar, l’aggressione di Marvin al quadernetto...) e non è detto che il protagonista possa o voglia superarli (così non riaggiusta l’inclinazione della cassetta della posta, per esempio). Solo gli amanti sopravvivono. Paterson sopravvive amando (o fingendo di amare) questo ciclo. Non gli è nemmeno concesso il miraggio dell’unicità, a Paterson. Una bimba verseggia meglio di lui, scompone quella cascata che lui guarda di continuo, lo sorprende. Un uomo giapponese s’è fatto un lungo viaggio per giungere a Paterson, conosce William Carlos Williams meglio di lui, scrive come scrive lui. Gli offre un quaderno bianco e un suono ridicolo: Ah, ah. È uno sberleffo? Una sdrammatizzazione? È anche la prima lettera dell’alfabeto. Poi è di nuovo lunedì.