TRAMA
Violetta, giovane artista di circo, in ospedale conosce un fantino. Una volta uscita, frequenta un ippodromo.
RECENSIONI
Un universo trasognato o votato alla follia che si apre su di una clinica (per meriti sul campo, psichiatrica) popolata da personaggi eccentrici, per poi ruotare attorno al mondo dell’ippica, senza soluzione di continuità, con la stessa bizzarra e assurda soggettiva. Ci sono un’infermiera logorroica ed ossessionata dalla morte (i cui soliloqui per durata e scarso interesse sono proprio…mortali), un fantino esagitato, altri due che si contendono la bella e sbarazzina acrobata circense, un fotografo spaesato, e così via: solipsismi in overlapping, esibizionismi all’eccesso. La passione dichiarata è quella per i cavalli (Kira Muratova, ad intervalli regolari, dedica lunghi minuti ai dettagli dei loro corpi) e per tutto ciò che vi ruota attorno, dalle corse alle scommesse, dalla loro sinergia con gli umani (si parla anche di centauri) alla terminologia specialistica del settore. Il tormentone recita così: “Sono meglio i cavalli da corsa o quelli da circo?”. Allo spettatore frastornato sorge giustamente un dubbio: qual è il punto? Che c’entra con l’ippica questo ridicolo tentativo d’essere stravaganti, questa brutta fantasia felliniana (anche se di circense c’è solo l’umanità) che ricorda di più La Signora in Bianco di Nicolas Roeg? Vorrebbe essere un’allegoria della realtà, del presente russo? O è solo un “donne e cavalli” da autore sperimentale che rincorre, senza il talento necessario, un intellettualismo demente e la demenzialità intellettualistica? L’unica attrattiva è fornita dalla prova delle due protagoniste, bravissime ma alle prese con delle macchiette senza scopo. Ad un certo punto del film qualcuno dice: “L’arte esige delle vittime”. Lo spettatore si candida al sacrificio di fronte ad un’opera delirante, nel senso peggiore del termine.