Commedia, Drammatico

PASSATO PROSSIMO

TRAMA

Cinque amici trascorrono un weekend nella casa di campagna di una di loro.

RECENSIONI

È vero, l’arte è un mestiere ingrato e qualcuno deve pur farlo, ma questo non significa che tutti, indiscriminatamente, ne siano capaci, e non credo che il criterio di selezione possa avere qualcosa che fare con l’albero genealogico. Si tratta con ogni evidenza di una convinzione isolata, dato l’esorbitante numero di figli d’arte che infesta il mondo del cinema (non soltanto) italiano. Nel caso in questione, la faccenda è più grave del prevedibile: la debuttante regista (figlia e sorella di tutti-sappiamo-chi) non solo non ha uno straccio, un brandello, un filo d’idea personale e non fa nulla per nascondere il proprio totale disinteresse al riguardo, ma utilizza il “potente” veicolo della sua opera prima per pontificare a proposito della sfortuna esistenziale dei figli d’arte (autodifesa preventiva?). Alla classica, indigesta volontà metalinguistica (quasi tutti i personaggi sono attori) si affiancano un figlio d’arte (ambizioso, frustrato e come se non bastasse anche logorroico) nella trama e due eredi d’arte nel cast [uno dei due è il fratello (più celebre) della regista, una sorta di nepotismo rovesciato, o al quadrato]. Amori e odi, andirivieni fra passato (l’estate soleggiata, l’amore, il desiderio) e presente (l’inverno raggelato, il rimorso, la disillusione), piani sequenza d’interminabile vacuità (carrelli al ralenti da destra a sinistra e viceversa, inquadrature fisse e dissolvenze incrociate a segnare lo scorrere delle ore: che trovate!) e musica incessante a coprire vuoti e pause (non l’imbarazzante dialogo, ahimè). Circa i modelli, non serve scomodare Bergman, Allen, Kasdan o anche soltanto Moretti: bastano e avanzano la Comencini (che cosa si diceva…?) de IL PIù BEL GIORNO DELLA MIA VITA e Sua Santità Muccino. Chi reggerà fino in fondo questo GRANDE FREDDO tele-novellistico, scritto male, diretto peggio, recitato con insoffribile gigioneria e/o mortificante piattezza, assisterà all’epilogo più inutile, incomprensibile e – quel che è peggio – brutto (virato in un orrendo azzurro slavato) degli ultimi anni, nel quale la vertigine metanarrativa (o più semplicemente narcisistica) si rivela un abisso di pochezza, che aspira vanamente alla lirica e si avvinghia con stiracchiato furore ai versi di Pessoa. Nello sfacelo generale si salva (in parte) la spigolosa Cervi, certo nipote d’arte ma prima di tutto vera attrice, capace d’infondere al suo personaggio quel tocco d’interesse, di passione, di vita che manca a tutto il resto del (tele)film.