Drammatico, Recensione

PAROLE D’AMORE

Titolo OriginaleBee Season
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Durata104'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Myla Goldberg
Fotografia

TRAMA

La piccola Eliza partecipa a gare di spelling fino a guadagnarsi la competizione nazionale; il padre è un insegnante di teologia ossessionato dal divino, la madre rimane ostaggio di dolorosi ricordi, il fratello si avvicina ad una strana ragazza.

RECENSIONI

A margine di un abete particolarmente disardono, la coppia McGehee/Siegel perlomeno ci prova; da un romanzo di Myla Goldberg gli autori de I SEGRETI DEL LAGO lanciano uno sguardo languido, tra intenso e lezioso, al retrobottega del miracolo americano raccontandone il sisma, senza alcuna fretta, con maniacale concentrazione sul particolare e la variazione impercettibile. L’idillio iniziale, il disfarsi dell’alveare ed il suo forzato ricomporsi – secondo un percorso narrativo classico e leggibile – trovano nella loro rappresentazione lo spunto maggiore dell’opera: contro ogni tendenza corrente, sulla debole linea dell’igiene mentale, BEE SEASON tenta un cinema mistico di doppia lettura, passando da una timida spiegazione immediata (sempre netta la concatenazione causa/effetto) alla complessità eterea di una stratificazione potenzialmente infinita (il continuo riferimento al mistico Abulafia). Subito un realismo totale si ramifica sui personaggi – nella lunga prima parte non pare accadere altro dalla nuda azione quotidiana – ma questo è repentinamente attraversato dal lampo fatato, ultraterreno, a creare un contrasto stridente con l’insistita normalità della pacchetto; se durante le gare Eliza si figura mentalmente le parole, dilatandosi come un albero nella scena più coraggiosa del film, l’irrazionale è fido compagno di proiezione, che si spinge all’estremo nella sequenza incredibile (in molti sensi) di Saul che entra nella caverna delle meraviglie della moglie. Malgrado tutto, la zattera perde acqua: nell’alto tentativo di affrancarsi dalla convenzione, parando dove si vuole anche a livello rappresentativo (così da permettersi una pura scena grafica, bellamente antinarrativa, in cui lettere si sovrappongono in un disegno d’incomprensibile coerenza), lo stilema hollywoodiano finisce talvolta per prevalere, esplicitando troppo (la voce off della bimba, a tratti micidiale) sino a sottrarre il sincero misticismo dal patrimonio dell’intuizione, incappando in evidenti errori di scrittura (il morso della mela è reclame da dentifricio), pagando pegno a modelli noiosi (la congiunzione inizio/fine) perdipiù mediamente consolatori. Certo non aiuta il cast adulto: Gere è un poveruomo al capolinea, sbandato come il suo ciuffo ribelle, la Binoche sull’estenuante modalità “buonismo sofferto” prepara una cioccolata da tempo avariata. Flora Cross è meglio di entrambi riuscendo, con primi piani d’inquieto candore, a stemperare qualche clamorosa stecca della sceneggiatura.
Il film è l’esempio più lampante, da molto tempo a questa parte, dei danni incalcolabili del doppiaggio: la gara di spelling, tradizione americana radicata nel territorio, acquista senso nell’idioma anglosassone data la divergenza fonetica tra writing e pronunciation. Tradurre in italiano BEE SEASON (oltre il consueto oltraggio del titolo) e presentarlo così nelle sale evoca una tragica nota di ridicolo involontario, risultando incomprensibile il motivo per cui, nella nostra lingua, bambini non portatori di handicap dovrebbero affrontare lancinanti difficoltà nel compitare il termine “origami”.