TRAMA
Nel 13° arrondissement di Parigi il desiderio è dappertutto. Émilie incontra Camille, prof di lettere che la innamora ma si innamora di Nora, provinciale e timida che videochiama Amber Sweet, cam girl che la ‘riconnette’ col mondo. Tre ragazze e un ragazzo in un mondo liquido.
RECENSIONI
La parte e il tutto. Il tredicesimo arrondissement (titolo italiano) è la vasta area al limite ovest della cintura urbana parigina che si estende dalla Senna fino a Porte d'Italie, l'ingresso storico alla città da Sud. Così recita la scheda Wiki: «Edifici classici si alternano a edifici moderni a molti piani nel XIII arrondissement multiculturale. La principale area Chinatown della città propone luminosi negozi di alimentari asiatici e una combinazione di ristoranti cinesi e vietnamiti informali ed eleganti. La Bibliothèque Nationale François Mitterrand, la biblioteca principale di Francia, è ospitata in un edificio con torri a forma di libro. I club trendy, i caffè e i bar su battelli di Quai de la Gare sono molto frequentati la sera». Les Olympiades (titolo originale) presidia i suoi margini meridionali ed è «un quartiere di torri residenziali costruito tra il 1969 e il 1974, costituito da una dozzina di torri costruite lungo un'enorme spianata. Un centro commerciale, noto come il Pagode, si trova al centro del complesso». È una parte di Parigi dove non sembra di essere a Parigi, i grandi landmark iconici sono distanti e semi-invisibili e l'architettura perde i caratteri locali - invece della tour le torri generiche anonime; invece dei boulevard, dei tetti mansardati, di ponti e cattedrali dove può installarsi chi vuole lavorare sull'immaginario prét-a-porter, una multietnicità polverizzata. Jean-Luc Godard scelse in presa diretta questa tipologia anni '60 di sviluppo edilizio come scenario antonomastico di alienazione per Due o tre cose che so di lei quando ancora si trattava di avanguardia urbanistica.
Cinquant'anni più tardi gli stessi palazzi sono identici e obsoleti, una bolla esclusa dallo spazio-tempo e ospitano il proletariato intellettuale super qualificato e precario che, a differenza del neoproletariato inurbato per cui furono costruiti, non può nemmeno permettersi un singolo appartamento per nucleo familiare (a patto poi di intendersi su cosa significhi ancora il concetto di "nucleo famigliare"). Non siamo nelle banlieu che - l'abbiamo visto ne L'odio e nella sua versione aggiornata ai tempi, l'ottimo Les miserables - hanno problemi e drammi endemici ma conservano una disperata vitalità, restano un potenziale soggetto storico. Qui il tono è depresso standard: tutti usano e abusano psicofarmaci e loro surrogati (erba e MDMA, party, sesso come Xanax eccetera). Emilie sopravvive di lavoretti e di occupazione di un domicilio lasciato libero dalla nonna e comunque è costretta a subaffittare una stanza al dottorando Camille per far quadrare i conti. La dinamica immobiliare come barometro dei mutamenti socioeconomici è al centro del nuovo film di Jacques Audiard al punto che un intero episodio si svolge dentro e attorno un'agenzia immobiliare dove il troppo qualificato Camille finisce a sacrificare le passioni all'altare della sussistenza. Si tratta anche di uno stratagemma per entrare nelle case di quelli che ancora vivono in centro e sono sempre gli altri. Cosa rappresenta la casa per gli attualmente trentenni? Sicuramente non l'approdo stabile, proprietario raggiunto all'esordio dell'età adulta dalla precedente generazione. Il film si apre con una panoramica notturna a volo d'uccello sul complesso residenziale che indugia sulle finestre ancora illuminate isolando scorci di intimità isolate. Ogni uomo è un'isola e così il suo appartamento: non stupisce che la prima svolta narrativa sia un Ultimo tango a Parigi virato in minore e tono comico, senza teoria e sovrastrutture né epos. Torna in mente ciò che scrisse una delle più grandi registe della notte e delle solitudini urbane, Chantal Akerman, parlando degli appartamenti nei quali ha vissuto: «La sensazione di essere attaccata solo alla terra che ho sotto i piedi – e anche lì il terreno è spesso piuttosto instabile».
Nelle intenzioni dichiarate dal regista Parigi, 13Arr. dovrebbe essere una specie di riadattamento di La mia notte con Maude al tempo delle app per incontri. Se nel film di Eric Rohmer - come in ogni opera rohmeriana - era il discorso (su Dio, Pascal e i più minuti accidenti) a frapporsi tra il desiderio e la sua realizzazione, a sostituire l'atto, «come funzionerebbe questa situazione oggi, quando ci viene offerto esattamente l’opposto? Cosa succede realmente nell’epoca di Tinder e del “farlo al primo appuntamento?” Può esserci un discorso amoroso in queste condizioni? Sì, certo, come potremmo dubitarne. Ma quando entra in gioco? Quali sono le parole e i protocolli?». Eppure più o meno intenzionalmente l'attenzione di autore e spettatore finisce per focalizzarsi, marxianamente, dall'analisi della sovrastruttura delle dinamiche amorose a quella della struttura dei rapporti socioeconomici in cui si inseriscono. Paris, 13Arr. è un instant movie della classe disagiata, una versione francese di quello che potremmo considerare uno pseudo-franchise con varianti nazionali di una condizione generazionale globale (l'esempio migliore, quest'anno, è l'eccellente La persona peggiore del mondo di Joachim Trier che racconta, da una prospettiva diversa, identiche tematiche). C'è tutto l'identitario (forse "troppo"?): le droghe ricreative, la sessualità fluida, il poliamore e il sesso a più di due come opzioni naturalizzate, Onlyfans, la stand up comedy, i social network e le stories, la tirannia delle opinioni. C'è anche dell'occhieggiare al prodotto identitario per eccellenza della generazione successiva, la serie Euphoria, in certi momenti di linguaggio visivo e colonna sonora (ottima, realizzata dal produttore Erwan Castex alias Rone). C'è soprattutto un impianto sociologico programmatico: studiare come l'economia si fa esistenza, come i mutamenti ciclici - in particolare gli effetti della crisi del capitalismo cominciata nel 2008 - si traducono in cambiamenti delle forme di vita.
Il film è tratto da una serie di racconti della graphic novel Killing and dying a firma Adrian Tomine, fumettista del New Yorker, rielaborati in una struttura a incastro di episodi da un gruppo di sceneggiatori che comprende il regista e Celine Sciamma. Il punto di forza dello script è nelle false piste, quando la narrazione devia dalla tesi illustrata, dall'oleografia consolatoria e auto-assolutoria e, alla giusta empatia per una generazione perduta per essere nata nel momento sbagliato, accosta la ferocia. I personaggi sono vittime e mostri, psicopatici, anaffettivi, frigidi e egoriferiti e gli sfruttati non perdono occasione per sfruttare (in senso economico, affettivo, erotico) altri sfruttati ogni volta che una posizione di relativo potere lo permette. Sotto l'apparente tono leggero e complice, il verdetto ha tinte fosche. Eppure, con un intervento scoperto che ha da parte degli sceneggiatori arbitrarietà e autorialità demiurgica, il finale vira verso il più tradizionale lieto fine feel good. È la conferma - dopo La persona peggiore del mondo - di una tendenza molto interessante per cui il paradigma di riferimento per linguaggio e genere, quando si parla di millennials, è la commedia romantica e le possibilità di detournement ideologico che può offrire. Mi è capitato in questi giorni di riguardare, sull'onda del lutto per la scomparsa di William Hurt, i film in tandem con Lawrence Kasdan e l'aspetto più straniante era la rappresentazione di coetanei dei protagonisti del film di Audiard. Non solo gli aspetti biografici (il domicilio, la carriera, i matrimoni), persino i corpi - l'aspetto, l'abbigliamento, le movenze - apparivano spropositatamente adulti e anziani rispetto agli standard correnti. Gli anni '90, epoca aurea rom com, sono stati pieni di eterni adolescenti che potevano permetterselo, nella breve finestra in cui la storia finse di essere finita. Si poteva essere disoccupati e insieme giovani e carini, essere coinquilini per cameratismo piuttosto che per naufragio. Un capolavoro esemplare come Quattro matrimoni e un funerale pedinava un gruppo di amici che sceglieva di non crescere. Il bacio sotto la pioggia finale alla Stanley Donen era sia un momento citazionista consapevole postmoderno sia l'esito naturale degli eventi. La chiusa di Parigi, 13Arr. invece, nella sua evidente forzatura, è il gesto registico più ideologico e significativo del film e certifica come la ritrovata vitalità di un genere sia proprio in ciò che dice in quanto anacronismo e paradosso, nel modo in cui palesa il segno delle mutazioni antropologiche.
