TRAMA
Olga, un’aristocratica russa immigrata e membro della Resistenza francese, viene arrestata dalla polizia nazista per aver nascosto dei bambini ebrei durante un raid a sorpresa. Viene mandata in galera, dove incontra Jules, un collaborazionista franco-nazista incaricato di indagare sul suo caso. Jules s’invaghisce di Olga e le propone una punizione più blanda in cambio di favori sessuali. Olga, disposta a fare qualsiasi cosa pur di evitare una brutale persecuzione, accetta, ma le sue speranze di libertà svaniscono rapidamente dopo che gli eventi prendono una piega inaspettata. Trasferita in un campo di concentramento, Olga è costretta a una vita d’inferno. Inaspettatamente, la sua strada si incrocia con quella di Helmut, un alto ufficiale tedesco delle SS, il quale un tempo si era follemente innamorato di lei e che ancora nutre sentimenti d’amore nei suoi confronti. Tra Helmut e Olga si riaccende la vecchia fiamma e i due s’imbarcano in una relazione contorta e distruttiva. Helmut decide di salvare Olga offrendole una via di fuga che lei riteneva ormai impossibile. Ma con il passare del tempo e con il profilarsi della sconfitta nazista, l’idea che Olga ha del Paradiso è destinata a cambiare.
RECENSIONI
Scrive Giorgio Agamben in Profanazione: «Museo non designa [...] un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più». Due film presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia operano attorno al processo in atto di museificazione del passato (entrambi si confrontano con quella che probabilmente resta la Tragedia inelaborabile della Storia recente: la Shoa): uno esibendola, ed è Austerlitz di Sergei Loznitsa, con la consapevolezza dei rischi che l'operazione comporta (annotava Giovanni Lindo Ferretti ai tempi di Linea gotica che «per come va il nostro mondo tutti quelli che denunciano ed evidenziano il degrado umano contribuiscono, malgrado loro, ad aumentarlo. E questo “malgrado” è tutto ciò che resta alla nostra buona coscienza»); l'altro, Paradise di Andrej Končalovskij, che concorre invece alla sua realizzazione. Vedendo quanto fatto da Končalovskij, mi tornano a mente delle considerazioni di Vincenzo Buccheri in merito a una certa tendenza del cinema sul finire degli Anni 90 che faceva dell'artisticità un programma intenzionale, a monte del film. Secondo Buccheri, quei lavori che volevano darsi una patina di autorialità proponevano un intrattenimento pensoso e patinato; individuava come costanti il preziosismo stilistico e il racconto a incastro.
Tutti elementi che, a distanza di vent'anni, ritroviamo applicati, con le medesime finalità, in Paradise (il regista costruisce il proprio teorema - non immune da accuse revisioniste - intorno a tre fattori: Olga, aristocratica russa legata alla Resistenza francese; Jules, collaborazionista franco-nazista; Helmut, membro delle SS, figlio della nobiltà tedesca. Ciascuno con una diversa idea di paradiso. Tutti coinvolti nel medesimo ménage dalle fosche tinte melodrammatiche). Quello di Končalovskij risulta quindi essere un film senile, che ostentando gli stilemi del rigorismo formale (il bianco e nero; il formato 4:3) dichiara la propria incapacità di comprendere il cambiamento e di elaborare risposte adeguate (Il figlio di Saul dovrebbe venir considerato oggi un testo di riferimento obbligatorio per chiunque voglia confrontarsi con la rappresentazione dello sterminio nazista). Il sospetto di museificazione della Storia («termine – che come sottolinea Agamben - nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza»), espresso all'inizio, diventa prova soprattutto quando il regista, in un gesto di calcolato pudore, sceglie di confinare l'orrore dei campi di sterminio in una raccolta di scatti fotografici (che evoca il volume conosciuto come Auschwitz Album): una doppia mediazione che depotenzia quelle foto della loro carica problematica, dato che mostrerebbero l'Olocausto nella sua quotidianità visto attraverso gli occhi degli assassini (la cosiddetta banalità del male). Ma l'intento di Končalovskij non è quello di problematizzare ma di assolvere lo spettatore dalle sue responsabilità. Risparmiargli il confronto (im)ponendosi come intermediario, cosa che dichiara in chiusura con sfacciato gesto demiurgico.