TRAMA
RECENSIONI
Prologo e Pregiudizio (o Il paragrafo che puoi saltare se sei di fretta)
Lo si ha già in mente questo remake di Papillon, ancor prima di vedere il film. Non c'è nulla da fare: nonostante il pregiudizio al cinema sia qualcosa contro cui uno spettatore che possa definirsi quantomeno curioso cerchi di combattere da sempre, questo si ripresenta puntualmente, nel bene e nel male, a quasi ogni nuova visione. Ci vuole impegno, dunque. Perché quello di svuotare la testa da ogni possibile condizionamento (esterno o interno) e di presentarsi innanzi al film come una tela bianca pronta ad accogliere e poi a riflettere su ciò che vedono i propri occhi (e loro soltanto) è un esercizio difficile e spesso faticoso, eppure indispensabile. Ne va del rispetto e dell'onestà che si ha verso se stessi, prima che per il film in questione.
È però altrettanto vero che sconfiggere del tutto il pregiudizio è impresa difficile, forse impossibile. Il giudizio dato prima, in base a chissà quale ispirazione divina o scetticismo cosmico, esiste ed è qualcosa con cui bisogna costantemente fare i conti. Figurarsi oggi che gli strumenti di marketing assieme ad una generale tendenza all'iper-visibilità veicolata soprattutto dal linguaggio social sembrano stimolare tale pregiudizio, facendo spesso in modo che lo spettatore arrivi al film con la testa già piena di informazioni e di immagini antipasto preconfezionate e calate dall'alto. La tela bianca insomma è un'utopia. Ma forse è proprio nel riconoscere l'impossibilità di liberarsi dal pregiudizio che sta il primo passo verso il suo superamento, verso un confronto consapevole e finalmente verso il riconoscimento della sua diabolica essenza tentatrice.
Ecco, per sostenere tali argomentazioni non potrebbe esistere esempio peggiore del Papillon di Michael Noer: un'operazione di una prevedibilità talmente evidente che il confronto inevitabile di cui sopra non può che portare ad una rara e precisa coincidenza tra pre- e giudizio. In altre parole, si tratta di un film che in qualche modo preesiste al film stesso. E non è certo un bene.
Papillon
Dal film di Franklin J. Schaffner datato 1973 (avvolto, ancora oggi, da quella luminosa aura tipica dei cult) la sceneggiatura di Aaron Guzikowski prende tanto, decisamente troppo, fino a che il racconto non si riduce ad una riproposizione costante e meccanica di elementi derivati dall'originale. Non un fresco e differente adattamento (o aggiornamento) della storia dunque, l'intenzione è piuttosto quella di raccontare di nuovo e a grandi linee quella medesima storia nel tentativo, vano e piuttosto patetico, di far leva sul ricordo del film che fu, svelando in questo modo un ingiustificato timore reverenziale nei confronti del testo di partenza (tratto a sua volta dall'autobiografia di Henri Carrière).
Narrare di nuovo, comprimendo e accelerando: corre troppo questo Papillon, in barba alla pesantezza tragica dei 150 minuti del film di Schaffner. Tutto accade troppo in fretta, quasi fossimo in una qualsiasi puntata di Prison Break, e diventa ben presto una mera esposizione dei fatti condensata in un minutaggio leggermente più agevole per la programmazione nei multisala. Un riassunto for dummies insomma, un Bignami scolastico consegnato ad un'altra generazione nell'ingenuo tentativo di replicare il cult. Ed è proprio in funzione di questo che lavorano le scelte di casting, anch'esse di una prevedibilità disarmante: prendi Charlie Hunnam, volto piuttosto anonimo che su grande schermo solo James Gray è riuscito a valorizzare (Civiltà perduta) e il cui nome è ancora legato ad una serie cult come Sons of Anarchy; prendi Rami Malek, che al cinema un ruolo importante non l'ha ancora avuto (attendendo Bohemian Rhapsody) e che oggi è estremamente legato ad un'altra serie cult come Mr. Robot. Prendi insomma questi due volti a loro modo iconici nella cultura popolare contemporanea (il secondo più del primo) e dai loro i ruoli che un tempo furono di uno Steve McQueen già ben che consacrato e di un Dustin Hoffman in piena ascesa. È tutto qui: tutto così evidente, tutto così scoperto. Così banale. In una sola mossa produttiva, tutta l'ingenuità e la superficialità dell'operazione.
Se poi dietro alla macchina da presa non c'è più un Schaffner (che solo tre anni prima aveva diretto Patton, generale d'acciaio) in grado di esaltare attori di una certo peso e soprattutto capace di trasformare la vicenda di Papillon in uno scontro quasi metafisico tra uomo e spazio solo attraverso scelte di messa in scena e di illuminazione, allora ecco che perfino volti estremamente familiari come i due sopracitati finiscono per risultare spaesati in un contesto come questo. La regia del danese Noer infatti (uno dei tanti registi nordici approdati in America dopo diversi lavori rimasti piuttosto relegati entro i confini del paese d'origine), pur ambendo ad un ampio respiro classico, si dissolve ben presto in un anonimato visivo estremamente dannoso per un racconto di questo tipo, mettendo ulteriormente in evidenza le grandi debolezze di scrittura di cui sopra.
Inutili le uniche differenze sostanziali di questo nuovo adattamento rispetto al testo di partenza: un prologo che non fa altro che togliere mistero e ambiguità alla figura di Papillon e un epilogo che esplicita una denuncia pasticciata e non richiesta perché per nulla supportata dalla struttura del racconto.
Tutto ampiamente, dannatamente, noiosamente prevedibile, davvero.
