TRAMA
Acquistata una casa sontuosa in un quartiere residenziale, Meg, separata, vi si stabilisce con la figlia. Nella gigantesca magione si trova un piccolo bunker, voluto dal precedente proprietario. Quel rifugio a prova di bomba si rivelerà utile da subito…
RECENSIONI
Assodata l'esistenza di un cinema firmato David Fincher, un percorso filmico ben definito, riconoscibile non solo (direi innanzi tutto) stilisticamente ma anche tematicamente (le FFF - FobieFisimeFollie - dell'uomo contemporaneo, alienato, nevrotico, spesso smarrito) il provetto critico lo mette alla prova con la visione dell'ultima fatica dell'americano e scopre che il discorso individuato tiene, che la definizione di Autore è decisamente guadagnata, che d'ora in poi la si può dare per scontata. Si fa un gran cianciare in questi giorni del tema del film, l'ossessione tutta statunitense per le stanze del panico (sorta di bunker casalinghi nei quali rifugiarsi in caso di pericolo, il più svariato), dibattito che faceva temere uno scivolone analitico - sociologico di Fincher dopo un film controverso e metaforicamente intasato come FIGHT CLUB, in cui si concentravano pregi e difetti del suo cinema autor(evole)iale: una certa consapevolezza del proprio status di cineartista accanto all'indubbia capacità di disegnare suggestioni e figure sullo schermo. PANIC ROOM, film dalla travagliata lavorazione (iniziato dalla Kidman poi infortunatasi, inizialmente riaffidato alla Bullock e poi ad una Foster incinta), opera che un facile vocabolario direbbe claustrofobica (l'ossessione - che è già cifra stilistica - di Fincher per gli spazi angusti e cupi, in cui anche le luci diventano soffocanti nelle loro cromaticità primaria), invece riesce a dissipare i dubbi sorti con la penultima fatica: il giovane regista, avendo a disposizione uno schema forte (il soggetto è di Koepp), lo utilizza senza oberarlo di significati sovrabbondanti e, semplicemente attenendovisi, compie un'operazione estetica (con questo non vuole dirsi superficiale) asciutta e godibile; non fa nessun tentativo di approfondire le psicologie dei personaggi affidandosi ai loro istinti primari (paura, avidità, spirito di sopravvivenza, combattività, pietà) né attinge a piene mani in un armamentario simbolico che avrebbe potuto trovare ampio utilizzo, affidandosi piuttosto all'evidenza di tracce che non abbisognano di essere ricalcate. In PANIC ROOM è chiaro, senza essere urlato, il discorso per il quale la ricchezza e l'agio portano vantaggi difficili da gestire, per i quali occorre a volte il manuale delle istruzioni e che possono trasformarsi in vere e proprie trappole: la stanza del panico è sì un simbolo (delle fobie di una classe, una sorta di ricettacolo concreto di un rimosso mentale, la metafora del benessere che si trasforma in macchina stritolatrice) ma acquista tale connotato nell'evidenza della realtà dei fatti, realtà oggetto di una rappresentazione che è e resta il primario interesse dell'autore. Introdotto da titoli di testa splendidi (un'attenzione che il nostro non si è mai fatto mancare e che la dice lunga sulla cura del dettaglio dei tanto bistrattati videoclippari a dispetto della rozzezza di certi soloni della macchina da presa), fotografato mirabilmente dal grande Darius Khondji (c'è da scommettere che la presenza di C.W. Hall è stata meramente sussidiaria), autore delle fosche tinte di SEVEN e che qui scandisce cromaticamente gli ambienti riservando le tinte più livide alla stanzabunker, il film utilizza l'archittettura come un percorso: la casa diventa il piano di gioco di un regista che vi muove la macchina da presa con una leggiadria superba che vira in sublime vertigine; che attraversa gli ambienti, circumnaviga gli oggetti, si sposta fluidamente da un piano all'altro e da un soggetto all'altro con carrelli e dolly impossibili, mantenendo queste evoluzioni perfettamente funzionali alla narrazione, centri di propulsione della suspense (tutta l'eccezionale sequenza che descrive l'ingresso in casa dei tre malviventi che si conclude nel buco della serratura della porta d'ingresso) e non meri pezzi di bravura disgiunti dal contesto.
Il film, con una trama che deve più di qualcosa a GLI OCCHI DELLA NOTTE di Young e che si snoda quasi tutta in tempo reale, può dirsi tagliato in due parti: dapprima il braccio di ferro a distanza tra le donne, nel bunker, e i tre malfattori (madre e figlia guardano gli intrusi, gli intrusi non possono vedere le due donne; la padrona di casa puo' parlare loro, loro non possono farsi ascoltare) e in cui il film si fa quasi sperimentale senza rinunciare alle sue caratteristiche di titolo acchiappapubblico. Con l'ingresso in scena di Bauchau (il marito della protagonista), che è preceduta dalla sequenza più sorprendente del film - quella in cui la Foster si lancia in camera alla ricerca del cellulare e la cui coda viene dilatata nel tempo con un ralenti suonoimmagine di tangibile angoscia - le barricate che sembravano cristallizzate saltano, le pedine si spostano e, se gli eventi prendono una piega più convenzionale e meccanica rispetto a una prima parte davvero impeccabile, si ha comunque l'impressione di un cambio di marcia ben congegnato e che consente al film di non perdere tensione. La filmografia di Fincher, a cui molti snob rimproverano ancora un'infamante discendenza dal videoclip (fucina di talenti dotati un gusto visivo che molti autori consacrati si sognano) comincia davvero a porsi come un corpus sfaccettato e interessante: da ALIEN 3, a SEVEN, da THE GAME (il suo film anomalo e ambizioso, chicca da auteur riuscitagli - ma alla prima occasione dirò del debito non pagato da quel film al romanzo THE MAGUS di John Fowles -) da FIGHT CLUB a questo nuovo funambolismo, Fincher si annovera tra gli autori di cui può essere legittima l'attesa dell'opera successiva (RENDEZVOUS WITH RAMA da A.C. Clarke).
David Fincher: più che un regista, un magico, misterioso trait d’union tra nicchia e massa, giustificato e gratuito, talento e virtù, profondità e pretenziosità, sostanza e forma. Tra l’Arte e l’Artigianato. Non fosse per questa misteriosa, fincheriana magia, Panic Room sarebbe invero thriller convenzionale di scarso interesse e non quel gioiellino cinematografico che è. Fotografato con la consueta predilezione per i toni scuri, anch’essa (solo) teoricamente scontata, il film si destreggia con eleganza tra molti stereotipi della paura, archetipi della claustrofobia, gabbie (bunker?) del cinema di genere e sublima d’incanto ogni rischio di standard. Difficile è capire esattamente come. Quello che balza letteralmente agli occhi è senza dubbio lo stile, che come sempre sa mantenersi personale e riconoscibile pur ostentando la propria natura di funambolico virtuosismo anabolizzato: l’enunciazione, specie nella prima parte di Panic Room, è costantemente marcata, con una sorta di zenit nell’ormai noto piano-sequenza impossibile in cui si fa invadente e quasi corporea la presenza di un uomo-regista onnisciente, onnipotente, inarrestabile che filtra attraverso i muri, s’infila nelle serrature e incolla magistralmente vorticose e virtualissime zoomate elaborate al computer ad arditi ma tangibili movimenti di macchina. Basta il già citato look darkeggiante e un uso spregiudicato delle tecniche di ripresa più spettacolari, ma anche in qualche modo “grossolanamente raffinate” nella loro evidenza, a fare uno Stile? Ripensando e verbalizzando le suggestioni visive dei suoi film, quasi ci si stupisce che la risposta sia comunque sì. Oltre a questo filo rosso formale, però, c’è da dire che anche un riconoscibile tratto contenutistico attraversa la cinematografia di Fincher: la confusione/intercambiabilità dei ruoli. Giova ricordare, a tale proposito, che la carriera del regista californiano era iniziata con Alien 3 in cui Ripley diveniva madre di una madre aliena, fattore che influenzò rinnovandola e “contaminandola” la caratterizzazione del personaggio protagonista della saga, e che l’ultimo film pre-panicroom è quello splendido Fight Club in cui lo scontro-incontro-“fusione” tra opposti convive schizofrenicamente addirittura in un unico personaggio. Panic Room, sotto la sua patina manichea, non fa assolutamente eccezione. Non solo, infatti, il cattivo interpretato da Whitaker fa acqua santa da tutte le parti (con tanto di esito sacrificale), ma anche madre-coraggio Jodie Foster, una volta uscita dalla stanza bunker e trasformatasi in cacciatrice, pare dotarsi di un’impalpabile carica negativa che intacca, offuscandoli e sfumandone i contorni, i (fino lì) limpidi confini del personaggio. “Tutto” qui. Tanto Cinema nello Stile, tanta ambiguità nella caratterizzazione ed evoluzione dei tipi solo apparentemente tali... per il resto, Panic Room è un ottimo thriller, ben scritto dallo strapagato Koepp, ben recitato, con tutte le carte in regola per sbancare i botteghini, ma soprattutto è un altro organico e coerente anello (forse un tantino debole, ma solo un tantino...) di una catena cinematografica difficile da catalogare che sta diventando inaspettatamente, misteriosamente, magicamente sontuosa ed “autoriale”.
David Fincher persegue la sua idea di cinema proponendo l'ennesima emblematica storia fobica all'interno di una società sempre più ascetica ed egocentrica, la cui causale inevitabile apertura verso il mondo esterno, visto con diffidenza quanto più "ignoto", produce evoluzioni imprevedibili nella psiche e nel comportamento del soggetto sottoposto all'interazione (ai limiti del parossistico dopo la strage dell'11 settembre). Il topos di Panic Room è una stanza blindata, isolata al "centro" di una casa enorme, troppo grande per i bisogni di una famiglia composta da una donna separata dal ricco marito e da una figlia malata di diabete, troppo vuota e rigida per un uso così passivo e stantìo (la moglie "dipende" dal marito, la figlia dipende dalla madre), dunque una sorta di doppio feto protettivo dalle insidie esterne.
Eppure il drammatico ok corral tra la famigliola e la banda di malviventi che entra nella casa per trafugare i tesori del vecchio proprietario è il frutto distorto dell'assenza di comunicazione provocato dai propri sensi acuiti dall'isolamento e distorti dalla tecnologia a nostra disposizione. Ma se Meg prende confidenza con il sofisticatissimo impianto di telecamere che spia ogni angolo della casa (non subito come fa acutamente notare Mauro Gervasini: la donna, pur avendo scoperto nei monitor degli estranei in casa, non prende immediatamente coscienza di quella realtà se non dopo aver sentito un oggetto cadere in terra, dando pertanto fiducia solo alla percezione diretta), è del tutto "chiusa" nei confronti degli "imprevisti" ospiti, e “animale” nella sua reazione, principalmente perché “animalescamente” sente in pericolo l’incolumità della figlia (reazione al quadrato perché la figlia non è autonoma). L'equivoco tracima progressivamente per l'univocità delle protesi sensoriali: dalla "panic room" si può solo vedere ma non sentire ciò che accade nella casa (altrimenti la donna avrebbe probabilmente concesso alla banda di perseguire il suo scopo). Viceversa dall'esterno non si ha la visione della stanza blindata e si può tutt'al più ascoltare i messaggi di chi sta dentro (i tre scassinatori avrebbero potuto "conoscere" lo stato della ragazza e agire diversamente). Dunque l'aspetto più interessante in questo thriller è la "menomazione" nella comunicazione, che assume una valenza simbolica a livello sociale non indifferente, nonostante le dichiarazioni del regista che rivendica l’intento puramente ricreativo della pellicola (ma se concediamo a Fincher la qualifica di “autore”, dobbiamo mettere in conto la possibilità che la sua cifra artistica oltreché stilistica fuoriesca a livello inconscio).
Se la personalità di Fincher è sempre più tangibile, cresce di pari passo la sua abilità dietro la macchina da presa. La prima parte del film è un esemplare saggio di suspence, nello svariato vagare della mdp in ogni angolo della casa, o mediante carrellate verticali "impossibili" attraverso i piani del palazzo al fine di denudarne la struttura, o scandagliandone gli angoli nascosti con "kubrickiane" inquadrature basse, o con “cadute” a spirale della mdp sulla tromba delle scale: una vera e propria trasfigurazione della casa in essere vivente dal cuore (la "panic room") pulsante, la cui forza emotiva può essere paragonata senza blasfemia ai capolavori horror sul tema. E se il decorso narrativo si incanala progressivamente in binari più convenzionali, la tensione rimane comunque alta, per arrivare ad un epilogo di eco "siegeliana" a ben vedere piuttosto scorretto ( - fare il bene non conviene... - ) scolpito nel volto dello straordinario Forest Whitaker, “chiasmico” antagonista della durissima Foster.