TRAMA
Una vedova indaga su una frode assicurativa inseguendo a Panama City due soci in affari che strumentalizzano il sistema finanziario mondiale.
RECENSIONI
Dietro al dettaglio di una banconota, il set; oppure, per dirlo con maggiore precisione, le voci senza volto/corpo di Ramon Fonseca (Antonio Banderas) e JürgeMossack (Gary Oldman), entità intangibili tanto quanto ciò che rappresentano: il credito, mezzo attraverso il quale lo scambio visibile si è trasformato in transazione invisibile, strumento che si connette a doppio filo con il frammentato universo delle società offshore e dei gusci vuoti che esse stesse vendono per occultare frodi assicurative.
Steven Soderbergh, in Panama Papers, gioca a carte scoperte e esplicita fin da subito l’intento didattico che struttura l’intera operazione: al cineasta americano interessa, infatti, puntare i riflettori sul potentissimo sistema microeconomico di riciclaggio che si sviluppa in filigrana, che sottostà all’inganno e al tempo stesso nutre il grande Moloch che è la macchina capitalistica del terzo millennio.
Nel patto ammiccante e inclusivo con lo spettatore, l’opera del cineasta americano si dipana in una sovrapposizione di strati all’interno dei quali i meccanismi filmici, economici e politici vengono poco a poco disvelati attraverso il gioco attoriale del trio Gary Oldman/Antonio Banderas/Meryl Streep, gioco che vede quest’ultima in particolare camminare sospesa sui bordi dei succitati gusci vuoti, in costante movimento da una superficie all’altra.
Paradigmatica, in questo senso, una scena del film che rende visibile il processo in atto: siamo in pieno giorno e la protagonista Ellen Martin, interpretata da Meryl Streep, si trova di fronte all’ingresso dell’appartamento che avrebbe voluto acquistare, in seguito alla morte dell’amato marito, con i risparmi dell’assicurazione di quest’ultimo, appartamento che le è stato appena “soffiato” da due speculatori che conducono affari attraverso società offshore. I due individui, insieme all’agente immobiliare (Sharon Stone, in un cammeo delizioso), imboccano l’interno illuminato dall’intensa luce del sole e chiudono la porta alle loro spalle. Ellen, intenzionata a non mollare la presa, inizia a osservare dallo spioncino della porta quel che succede all’interno dell’appartamento e, con enorme sorpresa, si ritrova a contemplare un opulento e nutrito party notturno.
A questo punto, Soderbergh esce dalla soggettiva della protagonista e conduce lo spettatore dentro il nuovo guscio, abitato dagli anfitrioni Fonseca/Mossack, i quali non perdono occasione per proseguire la disamina tecnica sull’universo delle compagnie transnazionali uscendo dal precedente set per spostarsi in uno scenario virtuale nuovo, una scatola dentro la quale si muovono nuovi lupi e si concludono affari labirintici.
In seguito, la scena scompare e una sequenza animata accompagna lo spettatore in un guscio ancora più piccolo in cui gli viene mostrato come si strutturano gli occultamenti del capitale; infine, dopo aver mostrato in rapidissima successione le mete dei principali paradisi fiscali, uno stacco improvviso ci riporta al primo livello dell’intreccio, ovvero alla scatola appena più piccola della macchina/cinema che tutto contiene.
Persino i due brevi (e magistrali) film nel film, ulteriori box incastonati nell’opera, servono a rimarcare il concetto fondamentale anticipato poc’anzi: il Moloch del capitalismo statunitense, vera e propria bestia demolitrice di valori e coscienze (curioso, a questo proposito, il racconto dell’adolescenza di Ramon Fonseca: un tempo fedele agli ideali che fanno riferimento alla teologia della liberazione, il personaggio interpretato da Antonio Banderas si trasforma poi in un predatore senza scrupoli, spostando la tensione da un’idea di civiltà verso il mero istinto di sopravvivenza), divora qualunque cosa, perfino il regista del film il quale, come Mossack/Oldman ci racconta, possiede ben cinque società esentasse in Delaware. Tutto il processo rientra, come ben sappiamo, entro gli indefiniti confini della legalità e, ci racconta al termine dell’opera Meryl Streep in un set ormai spoglio, i controlli e i contrappesi della democrazia, ammesso che esistano, falliscono miseramente.
Al di la della disperata presa d’atto di una sostanziale incapacità di riformare il modello all’interno del macrocosmo sociale e politico, Soderbergh compie un definitivo salto mortale in avanti oltre il piano immanente trasformando il cinema e i suoi strumenti nell’unico spazio di rivolta possibile, orizzonte di una necessaria ontologia critica e dialettica con la quale lo spettatore innanzitutto è chiamato a confrontarsi.