Drammatico

PALERMO SHOOTING

Titolo OriginalePalermo Shooting
NazioneGermania
Anno Produzione2008
Durata124'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un fotografo (Campino), amante del digitale, della manipolazione, della superficialità  della moda e dello stress come filosofia di vita, incappa nella Morte. La Morte (Dennis Hopper) gli farà  rivalutare la vecchia tecnologia analogica, in grado di cogliere l’istante, e – la metafora va da sè – stimolo per riapprezzare il tempo, il vivere attimo per attimo, gustandosi lo scorrere. Prima, però, il fotografo incontra una restauratrice (colei che ricompone, dettaglio per dettaglio, istante per istante) al lavoro su “Il trionfo della morte”, affresco di un anonimo siciliano che pare inscenare le medesime modalità  con cui la Morte continua insistentemente ad infastidirlo…

RECENSIONI

Da Il cielo sopra Berlino in poi, ciò che nel cinema di Wenders è concesso allo stupore- ciò che si fa mobile in una poetica da tempo calcificata- è il grado di esposizione del discorso, l’intensità percepibile del suo dominio. E’ un discorso a forza inappagato, elementare e universale come le domande esistenziali che si pone, egocentrico e autoreferenziale nella misura in cui ancora i suoi quesiti alla basica speculazione sull’ontologia dell’immagine (la vita e la morte: il tempo che scorre e si imbalsama nel cinema, la morte al lavoro nello scatto fotografico) o a topoi intimamente legati al mezzo cinematografico (come quello del viaggio, ricorrente e facile metafora dello scorrere della pellicola come della vita). E’ un dissertare che impone all’esistenza di rispecchiarsi nell’immagine, liquefacendo l’una nell’altra, palesandone, a suon di semplici associazioni poetiche, affinità da convogliare nella riflessione filosofica a cui si immola. Dissimulato sotto le scorie del presente (La terra dell’abbondanza), somatizzato dalla decadenza del Mito (Non bussare alla mia porta), trasfigurato in liriche indigeste (The Million Dollar Hotel) o raggrumato negli eccessi teneri e ingenui della fantascienza più povera (forse il genere fisiologicamente più prossimo alle tematiche dell’autore: non è un caso che Fino alla fine del mondo rimanga tra i migliori film di quest’ultimo periodo), il discorso domina, rappreso com’è nelle semplici associazioni sopraccitate, addensato intorno a un fluire retorico mai celato, dipanato con noncuranza in figure poetiche di puntuale banalità: è nel quantificare il tasso d’autonomia della trama che si gioca la sorpresa dello spettatore, nel verificare in che misura i personaggi siano mere funzioni dell’onnivoro discorso, nel cogliere l’intensità del sacrificio della narrazione sull’altare della riflessione.

Corpo centrale della recensione

Palermo shooting E’ il discorso di Wenders: nel calderone le aree semantiche intorno a “Vita/Morte” e “Fotografia analogica/digitale” si frantumano per poi ricomporsi in figure che le coniughino, l’una con l’altra, in paralleli e cortocircuiti che SONO, a tutti gli effetti, la trama, sospesa in un non-tempo astratto, tessuta da richiami tra sonno e veglia, da cronometriche risonanze e ripetizioni, recitata con voci che declamano- dette da corpi privi di vitalità, semplici mezzi enunciativi- uno scialare di massime risapute, triti slanci poetici, con gravità di tono che sospinge il film nell’indistinto territorio che dal sublime scade nell’imbarazzante, secondo gusto [1]. Non c’è segnale d’ironia, nemmeno nell’apparazione di un fantasmatico Lou Reed mentre le labbra del fotografo rincorrono Some kinda love [2], nemmeno nel discorso finale, vis à vis esplicativo tra protagonista e morte, che riassume il senso ultimo del film; c’è sprezzo del ridicolo nello smodato affastellarsi di simboli ovvi, nella tonalità seriosa e dolente (spesso gratuitamente) che perennemente pervade la pellicola, nel basso continuo del suo didascalismo: oggi il cinema di Wenders è coerente con sé stesso, autisticamente, eroicamente. Il suo è un peccato originale: nel proclamare (letteralmente) l’amore per l’attimo- che in Palermo shooting è in contrasto con le manipolazioni del digitale e la superficie ansiosa e frenetica del presente- Wenders non ne è mai effettivo fautore, se non a puro livello speculativo: nei suoi fotogrammi non c’è più la libertà, ma la sottomissione al discorso che li genera, all’atto che precede l’attimo e lo forgia a sua immagine [3].

Postilla al corpo centrale della recensione: un tentativo di giustificazione

Che- come lo sguardo interpellante della Mezzogiorno, dopo il magnifico campo-controcampo finale, parrebbe suggerire- il cinema di Wenders ambisca ad essere il processo, il mezzo che- per iperbolica contraddizione dialettica, per contrasto- ha lo scopo di indurre lo spettatore alla gioia dell’ agognato e perduto attimo?

Conclusione

Palermo Shooting si presenta in sala smussato di sedici minuti, dopo la pubblica denigrazione subita al Festival di Cannes. Summa dell’ultimo Wenders, ne palesa l’irritante propensione al lirismo, la scontata vena metaforica, ne conferma temi e stilemi, esplicitandoli in un elenco denso di luoghi comuni, sciorinati all’interno di una riflessione metafisica di ovvia e sciagurata ingenuità. Quella del cinema di Wenders è una scelta precisa: di coraggiosa involuzione nelle proprie convinzioni, frutto “irricevibile”- direbbe qualcuno- per manifesta aderenza al buon senso a cui perviene l’assunto, per il roboante romanticismo con cui ribadisce il proprio risaputo, per la strafottente insistenza su canoni unanimemente considerati deteriori. Giustificazioni di sorta plausibili o meno: un film abominevole, compatto nella dismisura, tanto pervicace nell’essere distante dal gusto comune da risultare perversamente, insanamente, sottilmente affascinante.

[1] Cito questa frase: recitata con sofferenza, valga per tutte: “Una cosa è certa: è una situazione di merda quando di colpo va tutto a puttane”

[2] La colonna sonora dimostra per l’ennesima volta il gusto di Wenders: tra gli altri, pezzi meravigliosi di Beirut (“Postcards from Italy”), Portishead (“The rip”) Oldham/Sweeney (“Tom and Brayed”) e un omaggio al De Andrè periodo Bubola con “Quello che non ho”. Non che la musica riesca a far librare l’immagine chissà dove, comunque. 

[3] L’”attimo”, nel cinema finzionale di Wenders, è forse stato carpito l’ultima volta in La terra dell’abbondanza, quando la mdp, sorpresa dall’entrata in campo di un uccellino, si soffermava per qualche istante sul suo volo.