TRAMA
Due bambini, fratello e sorella, scappano da casa e prendono un treno diretto verso la Germania, intenzionati a conoscere il padre lì emigrato.
RECENSIONI
Gli interpreti de La Recita, come fantasmi di un cinema passato che non è e non può essere più, dichiarano la propria sconfitta davanti al Tempo e alla Storia, di cui Anghelopulos non fa più la cronaca, preferendo sposare un cinema di poesia con l’ausilio dello sceneggiatore Tonino Guerra. Passa dal particolarismo greco alla storia dell’uomo tout-court, citando la Genesi e chiudendo con l’albero genealogico “primigenio”, in un Paradiso indefinito dove Dio non si mostra agli occhi appesantiti dalla nebbia e persi in un paesaggio depresso (vedi l’enigma della diapositiva). I bambini che si affacciano alla vita alla ricerca del padre, altro non sono che piccoli uomini che anelano al Creatore, in un on-the-road wendersiano, dove conta più il viaggio (l’esperienza) che la meta. Il treno della vita, il dolore, la crudeltà (lo stupro), il primo amore, la disillusione (sul padre…), la morte, il cerchio delle esistenze (la piccola Voula prostituta? Tutto fa pensare che anche la madre lo sia). Spesso le opere di Anghelopulos partono con un afflato denso e penetrante per poi perdersi nella monotonia. Difficile, comunque, rimanere indifferenti ai suoi lenti movimenti di macchina in piano sequenza, calibrati e partecipati come arie musicali che rifiutano la “fissità” di uno sguardo distaccato e si cullano come onde sul mare. Tonino Guerra carica eccessivamente le metafore e i lirismi, è forzatamente alla ricerca della voluta simbolica e rischia l’anonimato da spocchioso primo della classe, “bravo” solo in quanto esibizionista (con gigantismi figurativi e retorica religiosa: “Perdiamo lo scopo del viaggio, ci dimentichiamo di Dio”). Al contempo, i suoi tocchi surreali sono potenzialmente incantevoli: “Il gabbiano”, la neve che ferma il tempo.