Fantascienza, Netflix, Recensione, Thriller

OXYGENE

Titolo OriginaleOxygène
NazioneFrancia
Anno Produzione2021
Durata100’
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Liz si risveglia in una capsula criogenica con il livello di ossigeno basso. L’interfaccia medica computerizzata, M.I.L.O., non la fa uscire. Chiama la polizia e cercano di rintracciarla.

RECENSIONI

Un topo girovaga in un labirinto (entrambi bianchi). Buio. Come una larva – intrisa in una luce rosso sangue pulsante in un battito – una donna riemerge dal criosonno che l’avvolgeva da dodici anni. Elizabeth Hansen (Mélanie Laurent) non è che un topo e una larva: senza passato, poiché nulla ricorda, senza identità poiché le è affibbiato un numero com’è per le cavie animali. Così, il film inizia in un’asfissiante privazione dello spazio ‘umano’. Questa tensione tra anonimia e individuazione – tra claustrofobia e claustrofilia – è la (sola) dimensione in cui Elizabeth può muoversi. È nella memoria – figurazioni arboree, al cospetto di una Natura beatificata e pacificante, frutto forse della volontà di non appesantire troppo la pellicola – che Elizabeth si individua. Ma come scriveva Clément Rosset, identità significa al contempo qualcosa che non ha eguali (che è solo se stesso) e qualcosa uguale a un’altra cosa. Ecco, dunque, l’inghippo: che il clone Omicron 267 deve sapersi riconoscere egualmente diverso, per sopravvivere. In una camera sorda – dove la voce si estingue nelle fredde pareti che si affacciano al vuoto assoluto – Elizabeth non ha altro interlocutore che un’interfaccia inumana, M.I.L.O (la voce di Mathieu Amalric). E se la tomba criogenica sembra tale è perché Elizabeth deve riacquisire la capacità di usare la macchina, di porle le domande giuste, affinché essa le disveli la verità che le è nascosta per evitarle dolore – come il filtro della luce ultravioletta cela ai suoi occhi una rivelazione sconvolgente. Questo insieme di dissonanze è, a discapito della sua forza, disinnescato dal regista Alexandre Aja, che decide di rompere l’unità di luogo e di riattivare il processo di significazione attraverso dei referenti esterni, mostrando i cimeli di una vita (non) vissuta dal sembiante.

Al punto che ciò che sostiene la continuità è la performance di Laurent: una fenomenologia del suo modo di conferire senso agli eventi. Non c’è tempo per problematizzare alcunché: né la clonazione, né l’intelligenza artificiale sono al centro del film. La scena si legge nella relazione chiastica della sfera di cui scrive Sloterdijk nella sua trilogia: perché l’essere inviluppato è ambivalente, così come l’incubazione, la separazione dall’altro, la chiusura e la dischiusura; una circolarità che si palesa nel momento in cui il moto circolare dell’aeronave sfocia nell’iride di Elizabeth. La capsula è sfera sonora – inabissata nella propria solitudine – e sfera visiva, come lo è un cinema: nella notte uterina siamo esposti ai fantasmi delle immagini e ad esse dobbiamo dare un ordine. Aja sembra dunque suggerire un’ipotesi metafisica, più che etica. Come le immagini, fluide, indifferenziate e tuttavia assolutamente singolari, è l’uomo nuovo, quello che scamperà alla Terra devastata dal virus che uccide Léo Ferguson (Malik Zidi), marito di Elizabeth.