TRAMA
Liz si risveglia in una capsula criogenica con il livello di ossigeno basso. L’interfaccia medica computerizzata, M.I.L.O., non la fa uscire. Chiama la polizia e cercano di rintracciarla.
RECENSIONI
Un topo girovaga in un labirinto (entrambi bianchi). Buio. Come una larva – intrisa in una luce rosso sangue pulsante in un battito – una donna riemerge dal criosonno che l’avvolgeva da dodici anni. Elizabeth Hansen (Mélanie Laurent) non è che un topo e una larva: senza passato, poiché nulla ricorda, senza identità poiché le è affibbiato un numero com’è per le cavie animali. Così, il film inizia in un’asfissiante privazione dello spazio ‘umano’. Questa tensione tra anonimia e individuazione – tra claustrofobia e claustrofilia – è la (sola) dimensione in cui Elizabeth può muoversi. È nella memoria – figurazioni arboree, al cospetto di una Natura beatificata e pacificante, frutto forse della volontà di non appesantire troppo la pellicola – che Elizabeth si individua. Ma come scriveva Clément Rosset, identità significa al contempo qualcosa che non ha eguali (che è solo se stesso) e qualcosa uguale a un’altra cosa. Ecco, dunque, l’inghippo: che il clone Omicron 267 deve sapersi riconoscere egualmente diverso, per sopravvivere. In una camera sorda – dove la voce si estingue nelle fredde pareti che si affacciano al vuoto assoluto – Elizabeth non ha altro interlocutore che un’interfaccia inumana, M.I.L.O (la voce di Mathieu Amalric). E se la tomba criogenica sembra tale è perché Elizabeth deve riacquisire la capacità di usare la macchina, di porle le domande giuste, affinché essa le disveli la verità che le è nascosta per evitarle dolore – come il filtro della luce ultravioletta cela ai suoi occhi una rivelazione sconvolgente. Questo insieme di dissonanze è, a discapito della sua forza, disinnescato dal regista Alexandre Aja, che decide di rompere l’unità di luogo e di riattivare il processo di significazione attraverso dei referenti esterni, mostrando i cimeli di una vita (non) vissuta dal sembiante.
Al punto che ciò che sostiene la continuità è la performance di Laurent: una fenomenologia del suo modo di conferire senso agli eventi. Non c’è tempo per problematizzare alcunché: né la clonazione, né l’intelligenza artificiale sono al centro del film. La scena si legge nella relazione chiastica della sfera di cui scrive Sloterdijk nella sua trilogia: perché l’essere inviluppato è ambivalente, così come l’incubazione, la separazione dall’altro, la chiusura e la dischiusura; una circolarità che si palesa nel momento in cui il moto circolare dell’aeronave sfocia nell’iride di Elizabeth. La capsula è sfera sonora – inabissata nella propria solitudine – e sfera visiva, come lo è un cinema: nella notte uterina siamo esposti ai fantasmi delle immagini e ad esse dobbiamo dare un ordine. Aja sembra dunque suggerire un’ipotesi metafisica, più che etica. Come le immagini, fluide, indifferenziate e tuttavia assolutamente singolari, è l’uomo nuovo, quello che scamperà alla Terra devastata dal virus che uccide Léo Ferguson (Malik Zidi), marito di Elizabeth.