Drammatico, Recensione

OVUNQUE SEI

TRAMA

Matteo ed Emma sono sposati e hanno una bambina ma il loro legame attraversa una crisi. Una notte l’uomo, che lavora in ospedale, ha il turno in ambulanza in compagnia della praticante Elena, da cui è chiaramente attratto. Sua moglie, chirurgo nello stesso ospedale, cede intanto alle insistenze di Leonardo, il primario che la corteggia da sempre…

RECENSIONI

Dopo la deplorevole proiezione-corrida del Palagalileo alla Mostra di Venezia e le polemiche che ne sono seguite, rieccoci ad esaminare a mente fredda il film di Placido: diamo subito atto al regista della sua volontà di proporre qualcosa di sostanzialmente diverso non solo dalle sue opere precedenti, ma anche da quella che è la media tendenza del cinemino italiano, sempre più pigramente pascolante nel circuito chiuso di un realismo cronachistico e, anche per questo, perenne fotocopia di se stesso, a prescindere dagli autorelli che se ne fanno interpreti. Ciò detto e riconosciuto, però, rimane il dato di fatto di una pellicola - sia detto con la massima serenità - realmente indifendibile: con Ovunque sei Placido vuole alzare il tiro, ma ha tra le mani un soggetto sgangherato che si traduce in una mediocre sceneggiatura; lo sforzo di narrare una storia che cammini sul filo invisibile che divide la Morte dalla Vita non è insomma supportata dall'abilità necessaria a mantenervi l'equilibrio. Si ragiona di un'opera presuntuosa che, pur non girata male e con i primi quaranta minuti interrogativi che presentano una Roma notturna di fascinoso lividore, affoga poi in un fiume di pressapochismo. Placido azzarda il suo Mulholland Drive ma non basta un incrocio di destini su un ponte (Thorton Wilder?) con morti accidentali, non basta un trip post mortem leggibilissimo (che indurrebbe a revisionare i fatti, in stile Shyamalan), una donna che, oniricamente, si sdoppia, i riferimenti pirandelliani (l'ombra del fu Mattia, oltre a una frase ispiratrice tratta da L'uomo col fiore in bocca) e le musiche paraglassiane del soporifero Einaudi a nobilitare una materia in tal modo raffazzonata. Ovunque sei è un film improponibile alla lettera, ma talmente sbagliato da diventare impedibile, al quale potrebbe davvero capitare in sorte l'ambitissima etichetta di scult: solo in quest'ottica la pessima interpretazione di Accorsi, acquisterebbe senso, avrebbe il suo perché.

Matteo ed Emma sono una coppia un po' triste: lui lavora sulle ambulanze, lei in ospedale come chirurgo. Hanno una figlia a cui vogliono bene, ma il sentimento che li lega ha perso entusiasmo e le energie sono tutte per mezze frasi di reciproca incomprensione. Entrambi sono attratti da colleghi di lavoro. Fin qui sembra di trovarsi in un ordinario dramma degli affetti: conflitti, incomunicabilità e tradimenti, incorniciati in una Roma dai toni bluastri resa suggestiva dalla fotografia di Luca Bigazzi e dal toccante commento sonoro di Ludovico Einaudi. Anche gli attori se la cavano con professionalità. Poi Michele Placido, dopo il deludente "Un viaggio chiamato amore", prova ad affrancarsi dal minimalismo di tanto cinema italiano contemporaneo e a volare alto. L'aggettivo che meglio qualifica i suoi pur apprezzabili sforzi di uscire da strade rodate e ampiamente battute è uno solo: imbarazzante. Eh sì, perché inaspettatamente il film diventa un grottesco incrocio tra Pirandello e "X-Files" e sbanda clamorosamente nel ridicolo involontario. Tutta la seconda parte è infatti un filosofeggiare sulla caducità degli affetti e sul dolore provocato dalla perdita di un amore, ma Placido non riesce a sfruttare le potenzialità espressive del mezzo cinematografico e non trova il taglio adatto alla pretenziosità del racconto. E così, tra dialoghi insensati (la non intenzionale comicità delle disquisizioni su geografia e coccinelle), svolte narrative nonsense (il lungo episodio del professore universitario) e dettagli kitsch (il grottesco nudo integrale finale, che gioverà di sicuro alla promozione del film), il lungometraggio cede al pastrocchio e finisce per suscitare risate laddove vorrebbe indurre alla riflessione e persino impensierire. Peccato, perché gli attori sono bravi, ma il più delle volte mal diretti e lasciati affondare insieme alle pretese del progetto.