Drammatico, Recensione

OSSESSIONE

TRAMA

Gino è un giovane vagabondo che si ferma in uno spaccio di campagna, folgorato dalla bellezza della moglie del proprietario, Giovanna. Consumano la reciproca passione ma Giovanna non vuole fuggire con lui.

RECENSIONI

Per questo film, il montatore Mario Serandrei usò per la prima volta il termine di ‘neorealismo’, anche se l’esordiente Luchino Visconti si rifà maggiormente alla lezione appresa in bottega da Jean Renoir (era sul set del suo Toni, il cui naturalismo in qualche modo anticipa la “corrente” che troverà in Rossellini e De Sica i massimi esponenti). La sceneggiatura scritta dal regista con Mario Alicata, Giuseppe De Santis e Gianni Puccini prende le mosse, non dichiarandolo per un problema di diritti, da Il Postino Suona Sempre due Volte di James M. Cain (la nota versione di Tay Garnett venne girata due anni dopo), variando ma lasciando intatto il nocciolo di ossessione, senso di colpa e passione. Esteticamente, restano impressi gli splendidi carrelli laterali, impegnati in piani ravvicinati delle figure: ad esempio l’entrata in campo del vagabondo di Girotti, con sexy canottiera che anticipa il Brando di Un Tram che si Chiama Desiderio, non mostrato in volto ma con la macchina da presa rasoterra; oppure lo splendido lavoro di montaggio interno nella camera da letto, dopo la passione consumata per la prima volta. La poetica che ha fatto grande Visconti, poi, si staglia subito nelle sue direttrici: (neo)realismo da un lato, di location, volti, sapori inediti nel cinema italiano (è ambientato nel ferrarese e ad Ancona), e melodramma dall’altro, perché l’ossessione del titolo è la malattia dell’amore, quella che impone una maschera tragica quando tutti festeggiano, quella che consuma la ragione e, magari, porta con sé una recitazione enfatica (Girotti, in molti passaggi, non regge; Clara Calamai tende al teatrale). Il dipingere la vittima designata del bravo Juan De Luanda in modo amabile (per quanto spesso rude con la moglie), non è un espediente per aumentare la colpa degli amanti ma per accrescere la portata della loro disperata fissazione. Il genere ‘thriller’, inedito e controculturale in Italia, non guarda al cinema hollywoodiano ma trova i propri sapori anticonvenzionali in passaggi, annotazioni e dialoghi (rivisti da Moravia, non accreditato): basti la cinica parte finale in cui gli amanti, finalmente sereni, sono convinti che la nuova vita sia benedetta dal destino e così non sarà, proprio con la complicità di un bambino che potrebbe essere un angioletto di Dio; oppure la scena dove Dhia Cristiani, simbolo dell’innocenza, si offre di passare da prostituta per salvare Gino che, ormai inquinato dall’ossessione e dal modus vivendi di Giovanna, non si fa scrupoli ad accettare. Per l’epoca, era quindi un film audace, erotico, pessimista, “contro” (l’elegia della vita vagabonda…), con implicazioni omosessuali nel rapporto con lo spagnolo su cui la censura fascista si accanì.