Per Robert Aldrich la guerra è soprattutto situazione: un contenitore drammatico che porta al punto di ebollizione tensioni psicologiche e morali che nella vita ordinaria rimarrebbero allo stato latente o si confonderebbero coi comportamenti abituali. Analogamente a quanto avviene in altri microcosmi fortemente caratterizzati quali lo spettacolo, lo sport o il mondo dei gangster, il conflitto funge da catalizzatore di pulsioni altrimenti invisibili, travolgendo gli individui che vi si trovano coinvolti fino a spogliarli di tutte le sovrastrutture e metterne a nudo forze e debolezze. La dinamica bellica esercita una pressione così violenta sugli uomini da trasformarli profondamente, inducendoli a compiere atti che in condizioni normali non compierebbero mai. Mortai, carri armati, mitragliatrici e bombe materializzano il pericolo incombente, minacciano le vite dei soldati e ne esasperano i tratti comportamentali: un campo di tensioni che non risparmia nessuno, a prescindere dal grado e dall’anzianità di servizio.
La guerra tira fuori il meglio e il peggio degli uomini: è questo il teorema dei film bellici di Aldrich. Al cineasta americano la situazione bellica non interessa come evento storico, puntuale e circostanziato, ma come camera di scoppio dei conflitti interni ed esterni dei personaggi. Il suo sguardo sulla guerra è sostanzialmente occasionale (sia nel senso cronologico che in quello drammaturgico) e questa disinvoltura nei confronti dei singoli episodi gli permette di passare senza soluzione di continuità dal fronte francese di Prima linea (Attack!, 1956) alla Berlino dell’immediato dopoguerra di Dieci secondi con il diavolo (Ten Seconds to Hell, 1959), dall’Atene alla vigilia dell’invasione tedesca delle Colline dell’odio (The Angry Hills, 1959) alla Normandia occupata dai nazisti di Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen, 1967) o all’isola del Pacifico infestata dai giapponesi di Non è più tempo di eroi (Too Late the Hero, 1970). Il genere bellico è occasione e pretesto per rappresentare uomini sotto pressione e mettere in scena vicende incentrate sul riscatto morale di individui che tentano di recuperare l’autostima perduta.
Coriaceo cineasta di set, “le gros Robert” dedica due settimane di prove preliminari nelle location dei film: la dettagliata preparazione serve agli attori per collaudare le dinamiche drammaturgiche e dà al regista l’opportunità di elaborare visivamente le scene, garantendo agli uni e all’altro rapidità di esecuzione durante le riprese. Questo metodo riflette il principio di base delle pellicole di guerra di Aldrich: il conflitto di caratteri sfrutta la cornice bellica come cassa di risonanza tragica. Ma se il canovaccio di fondo resta invariato, di film in film il regista americano sposta l’accento su aspetti diversi, privilegiando ora la ribellione a un comando militare fondato su convenienze politiche (Prima linea), ora configurando una lotta per la sopravvivenza tra antagonisti che incarnano il coraggio e l’opportunismo (Dieci secondi con il diavolo), ora inscenando il coinvolgimento di un individuo scetticamente neutrale (Le colline dell’odio), ora raffigurando il riscatto di uomini condannati dalle istituzioni (Quella sporca dozzina), ora, infine, glorificando beffardamente la caduta di un antieroe al termine di una missione in territorio nemico (Non è più tempo di eroi).
Un percorso all’insegna di un cinismo crescente che nello scontro frontale con la gerarchia militare e la meschinità dei suoi rappresentanti celebra il trionfo morale degli ammutinati sull’apparente successo dei compromessi: “Vincere è tremendamente, tremendamente importante; ma puoi essere un vincitore se perdi meglio di colui che vince” [1].
[1] Robert Aldrich, in Eugene L. Miller – Edwin T. Arnold, “Robert Aldrich Interviews”, University Press of Mississippi, Jackson, 2004, p. 77 (traduzione mia).
Terminato Un bacio e una pistola (Kiss Me Deadly, 1955), Aldrich fonda la compagnia di produzione Associates and Aldrich portandosi dietro alcuni collaboratori – il montatore Michael Luciano, il direttore della fotografia Joe Biroc e altri assistenti – coi quali aveva lavorato in televisione e nelle pellicole precedenti. Il suo primo film di guerra è Prima linea (Attack!, 1956), tratto dal testo teatrale Fragile Fox di Norman Brooks e sceneggiato da James Poe, già al suo fianco nel Grande coltello (The Big Knife, 1955). Siamo nel 1944 sul fronte francese e una compagnia di soldati americani deve vedersela con le truppe naziste che occupano il territorio nonché con un comandante di incorreggibile vigliaccheria, che pur di non rischiare la pelle manda i suoi uomini al macello. Dietro le quinte del film di guerra Aldrich mette in scena uno psicodramma: la viltà del capitano Cooney (Eddie Albert) si scontra con l’audacia del tenente Costa (Jack Palance) [2], riverberando nell’insofferenza dei soldati mandati a combattere e in uno scenario dominato dalla devastazione delle battaglie.
[2] L’antagonismo tra due personaggi che incarnano valori diametralmente opposti (nobiltà della ribellione vs viltà dell’omologazione) rappresenta il nucleo conflittuale del cinema di Aldrich a partire dal western del 1954 L’ultimo Apache (“Apache”), film nel quale compare il prototipo dell’eroe aldrichiano (l’indiano Massai interpretato da Burt Lancaster) contrapposto a un personaggio affine etnicamente ma eticamente antitetico (Hondo, interpretato da Charles Bronson).
Girato con spericolata economia di mezzi (il dipartimento della guerra si rifiutò di collaborare), Attack! è fondamentalmente un film contro la guerra [3], ma anziché mostrarne l’orrore Aldrich ne enfatizza l’assurdità, smascherando la trama di interessi politici e convenienze personali che ammorbano la gerarchia militare. Il capitano Cooney gode dell’interessata protezione del colonnello Bartlett (Lee Marvin), mentre l’esasperato tenente Costa trova un cauto alleato nel parigrado Woodruff (William Smithers), che pur condividendone i principi ne disapprova i metodi indisciplinati. Il colonnello Bartlett rappresenta il volto imperturbabile e diabolico del potere: la sua uniforme è sempre inappuntabile, persino quando è in mimetica nell’infuriare della battaglia non ha un granello di polvere addosso. Non lo vediamo mai sporcarsi le mani in occupazioni quotidiane e non sappiamo dove risieda: egli semplicemente appare, ordina e manipola. Costa, al contrario, conserva un’indistruttibile integrità morale anche con una gamba ferita e un braccio maciullato: la sua combattiva generosità lo condanna a morte certa, ma la sua incorrotta moralità viene presa in consegna da Woodruff che, giustiziato Cooney a colpi di fucile, resiste alle mefistofeliche macchinazioni di Bartlett e comunica via radio al generale di divisione la verità dei fatti, andando incontro alla corte marziale.
[3] “Basically It was an anti-war film”, Robert Aldrich, ivi, p. 26.
Film immediato, terragno e visivamente aggressivo, Prima linea si aggiudicò il Premio della Critica Italiana alla 21ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, fu molto amato dalla critica francese e da Aldrich stesso [4]. Grazie alla rapidità del direttore della fotografia Joe Biroc, il cineasta americano poté girarlo con una sola macchina da presa e dare alle immagini un’incisiva profondità di campo che, amplificata dalla partitura dissonante di Frank DeVol, scolpisce le tensioni psicologiche nella deformazione delle espressioni facciali (su tutte la bocca atrocemente spalancata del cadavere di Costa). Aperto da una secca panoramica sul campo di guerra, il primo film bellico di Aldrich sbozza uno studio di caratteri che lottano per sopravvivere sotto pressioni eccessive: la prevalenza di interni e inquadrature lunghe tendenti al piano sequenza traduce sul piano stilistico la centralità delle psicologie a confronto, in un serrato testa a testa che vede trionfare l’etica dei giusti sull’etichetta della gerarchia militare. È ancora tempo di eroi.
[4] Accanto a Un bacio e una pistola e Il grande coltello, Prima linea è uno dei tre film di cui Aldrich si è sempre detto soddisfatto: “I think I made three very good movies, The Big Knife, Attack and Kiss Me Deadly“, ivi, p. 57.
Tratto dal romanzo The Phoenix di Laurence P. Bachmann e cosceneggiato da Aldrich insieme a Teddy Sherman, Dieci secondi con il diavolo (Ten Seconds to Hell, 1959) è il primo film europeo di Aldrich dopo gli attriti con la Columbia di Harry Cohn e la conseguente esclusione dalle fasi finali della Giungla della settima strada (The Garment Jungle, 1957), pellicola che venne affidata in extremis al ben più malleabile Vincent Sherman. Approfittando dell’accordo firmato dalla United Artists con l’UFA di Berlino – patto che contemplava l’uso degli studios nonché dello staff e dell’equipaggiamento locale – Aldrich si reca nella città tedesca per girare Ten Seconds to Hell. Si palesano immediatamente alcuni inconvenienti: le maestranze tedesche costruiscono le pareti della scenografia in modo così robusto da renderle inamovibili e la gru disponibile negli UFA Studios è troppo vecchia e ingombrante perché il regista americano possa adoperarla negli interni come avrebbe desiderato. A questi contrattempi si aggiungono il deterioramento del rapporto professionale con Jack Palance e il sostanziale disinteresse dei partner finanziari nella lavorazione del film, salvo manometterlo pesantemente e arbitrariamente a montaggio avvenuto.
Ne scaturisce la pellicola più mutilata di Aldrich (dai 131′ del montaggio originale di Aldrich agli 89′ della versione voluta dal distributore). Insieme al successivo Le colline dell’odio (The Angry Hills, 1959), Aldrich lo definisce nel 1962 un marginal film, ovvero uno di quei film non particolarmente riusciti ma che avrebbero potuto essere di gran lunga migliori [5]. Poi, però, nel 1968 torna sui suoi passi e lo bolla come un film irreparabilmente cattivo, ovvero un film che non saprebbe rendere migliore anche se avesse la possibilità di girarlo il giorno dopo [6]. Dal film è stato asportato l’intero inizio, durante il quale venivano mostrate le motivazioni degli sminatori: dal momento che non c’era modo di procurarsi abbastanza cibo nella Berlino postbellica, questi uomini accettavano un lavoro pericolosissimo per preservare le loro famiglie dalla fame. I pesanti tagli comportano inoltre un manicheismo e una rigidità della progressione drammatica goffamente compensati da una voce narrante retoricamente enfatica.
[5] “Both Ten Seconds to Hell and The Angry Hills are what I call marginal films – pictures that are not really good enough but could have been a lot better”, ivi, p. 16.[6]“Ten Seconds to Hell (…) is a bad picture. […] No matter if I did Ten Seconds to Hell tomorrow I wouldn’t know how to make it any better”, ivi, p. 47.
Nonostante si svolga nella Berlino dell’immediato dopoguerra, Ten Seconds to Hell è ascrivibile al genere essenzialmente per due motivi: l’ambientazione militare e, soprattutto, la rischiosa mansione dei sei sminatori tedeschi incaricati di disinnescare gli ordigni inesplosi. A dispetto dei tagli e dell’inevitabile spigolosità narrativa, Dieci secondi con il diavolo resta un film squisitamente aldrichiano: la rivalità tra i due artificieri-colossi Eric Koertner (Jack Palance) e Karl Wirtz (Jeff Chandler) ripropone il dilemma tra idealismo e materialismo tipico del regista e la folgorante asciuttezza delle sequenze di disinnesco esaspera, dilatandola, l’asprezza visiva che connotava gli scontri a fuoco di Attack. Ma se temi e modi si riallacciano al film precedente, in Dieci secondi con il diavolo Aldrich sposta le coordinate dello sguardo a un livello ancora più interno: a fronteggiarsi non sono più soldati e superiori, ma membri della stessa squadra. E persino il pericoloso incarico che dovrebbe compattare il gruppo si tramuta in una cinica scommessa con la morte (i sei sminatori devolvono metà dello stipendio a una cassa comune che finirà nelle mani dell’unico sopravvissuto).
Diversamente da Prima linea, l’opportunismo e la meschinità scendono dalla casta dei superiori e contaminano gli uomini che fanno il lavoro sporco, disgregandone l’unità e corrompendone i principi. Anche l’assetto visivo del film si abbassa sensibilmente: pur aprendosi con riprese aeree di bombardamenti a tappeto, man mano che Ten Seconds to Hell avanza le inquadrature si infossano nelle macerie degli edifici sventrati, la macchina da presa striscia nella polvere giacendo accanto alle bombe inesplose, la suspense degenera in meccanismo che non lascia scampo [7]. La guerra continua a mietere vittime a scoppio ritardato con disarmante indifferenza: la morte di Sulke (Wesley Addy) è girata esclusivamente con particolari, senza mai inquadrarne il volto, e il suicidio finale di Wirtz, dopo il tentato omicidio del rivale e la successiva umiliazione, ristabilisce un senso di giustizia luttuosamente definitivo. Dieci secondi con il diavolo è un film straziante e straziato, costellato di eventi tragici e stridentemente addolcito da una componente mélo (la storia d’amore tra Koertner e la francese Margot interpretata da Martine Carol) che nel suo sentimentalismo piuttosto convenzionale alimenta la speranza di una ricostruzione moralmente giusta. Il secondo film bellico di Aldrich ci dice che dalle ceneri della Germanica Fenice potrà rinascere un’umanità nuova: nessuno è morto invano.
[7] Gli sminatori di Dieci secondi con il diavolo disinnescano gli ordigni inesplosi a mani nude, con un’attrezzatura rudimentale e senza alcuna corazza protettiva. La loro bestia nera è una bomba inglese da 1000 libbre a doppio detonatore: disinnescato il primo, si attiva immediatamente il meccanismo a orologeria del secondo, la cui durata è del tutto imponderabile. Quasi cinquant’anni dopo, la tensione che innerva la sfida tra ordigni esplosivi ed esseri umani sarà protagonista di The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, anche se gli artificieri americani in Iraq del film del 2008 disporranno di un’apparecchiatura ultramoderna. In questo senso non è irragionevole affermare che Ten Seconds to Hell rappresenta una sorta di The Hurt Locker ante litteram e più vulnerabile.
Secondo film europeo di Aldrich, Le colline dell’odio è tratto dal romanzo The Angry Hills di Leon Uris e sceneggiato da A. I. Bezzerides, già autore dello script di Un bacio e una pistola (Kiss Me Deadly, 1955). Come per Dieci secondi con il diavolo, Aldrich ha dei problemi col protagonista (Robert Mitchum): il regista dichiara di non essere riuscito a trovare il sistema di rendere accettabile l’interpretazione dell’attore, manchevolezza di cui si assume comunque ogni responsabilità [8]. Il film è stato penalizzato da scadenze contrattuali troppo strette e da tagli arbitrari della produzione (nella versione di Aldrich durava 1190, mentre la pellicola distribuita in sala soli 1050). Le colline dell’odio è indubbiamente un film sgangherato, senza un saldo fulcro narrativo: il racconto funziona più per peripezie che per sviluppo organico. L’incoerenza dell’intreccio, chiaramente ravvisabile nelle numerosissime dissolvenze che raccordano le sequenze, dipende essenzialmente dal fatto che la lavorazione del film ebbe inizio con una sceneggiatura scritta solo per un terzo: “Così il film perse la principale qualità della coesione” [9].
[8] “I was totally unable to find any personal or creative or even emotional routes to make Mitchum really function as an actor. […] And since the performance that I was able to extract from Mitchum was neither sensitive nor accomplished nor in any way gifted, my failure to connect with him is a liability that I alone must assume”, ivi, pp. 15-16.[9] Ibidem (traduzione mia).
Sprezzantemente definito dal capo della Gestapo Conrad Heisler (Stanley Baker) “una specie di vigliacco intellettuale che osserva gli altri morire”, protagonista della pellicola è il giornalista americano Mike Morrison, corrispondente di guerra che si trova invischiato suo malgrado nella resistenza greca alla vigilia dell’occupazione nazista di Atene. Se in Prima linea e in Dieci secondi con il diavolo Aldrich rappresentava il conflitto dall’interno, nelle Colline dell’odio adotta invece un punto di vista esterno, mettendo in scena il progressivo coinvolgimento di un personaggio scettico e individualista in una causa di importanza collettiva: non si tratta più di combattere le storture della gerarchia militare e sopravvivere dignitosamente all’abbrutimento bellico, ma di vincere una ritrosia all’impegno che rasenta l’immoralità. Il film è chiaramente improntato a responsabilizzare Mike Morrison, che da osservatore neutrale si trasforma in partigiano, assumendo un ruolo chiave nella resistenza all’invasione tedesca (deve comunicare un elenco di falsi collaborazionisti greci all’Intelligence Service di Londra) e interiorizzando i valori di coraggio e altruismo che la sua missione comporta (Morrison impara a memoria l’elenco di nomi).
Cambia la prospettiva e cambiano le strategie stilistiche: per raccontare la storia di questo coinvolgimento Aldrich limita le sequenze belliche a sporadici episodi (l’assalto al deposito di munizioni, la rappresaglia nazista nel villaggio) e ricorre alle formule del film di spionaggio (tradimenti, tranelli, ricatti), a evenienze noir (l’incursione notturna nell’istituto americano di archeologia con giochi di luce oscillante) e parentesi mélo (l’effimera relazione tra Mike ed Eleftheria e l’ambiguo rapporto tra Heisler e Lisa). Non mancano inoltre i riferimenti storici e mitologici: la resistenza alle Termopili, evocata in apertura di film, e il seme di melograno lasciato a Persefone dal marito, parafrasato dalla scena in cui Eleftheria consegna a Mike un orecchino come oggetto apotropaico. E, se non bastasse, fanno addirittura capolino atmosfere western nell’agguato di Morrison a Heisler. L’alternanza dei registri e la disinvoltura con cui alcune figure entrano ed escono dalla trama (l’enigmatico Chesney su tutti) intralciano tuttavia un adeguato approfondimento delle psicologie, relegandole allo status di stereotipi.
Non scarseggiano i consueti preziosismi visivi (inquadrature in profondità di campo coi personaggi disposti su piani diversi, long take e fluidi movimenti di macchina), ma stavolta i pezzi di bravura sono tenuti a freno, come se venissero interrotti sul punto di farsi evidenti. E se la sequenza dell’esecuzione nel villaggio sulle colline è girata con ellittica perentorietà, gli ultimi quindici minuti del film si adagiano in un montaggio alternato che non si fa scrupolo a incanaglirsi nel patetismo e nel sentimentalismo di grana grossa. The Angry Hills fu un insuccesso di critica e pubblico e il regista si rammaricò dell’occasione perduta, poiché la catastrofe si sarebbe potuta evitare con più tempo a disposizione per la lavorazione del film: “Le colline dell’odio è deludente non perché non è un buon film, ma perché avrebbe potuto essere buono. Ha un potenziale che non è stato neanche lontanamente concretizzato” [10]. Ciononostante la terza pellicola bellica di Aldrich possiede il fascino perverso dei film incontrollati e, nel suo maldestro tentativo di rappresentare l’apologo morale di un individuo senza causa, prefigura la parabola di riscatto esistenziale che contraddistinguerà la missione di Quella sporca dozzina.
[10] Ivi, p.47 (traduzione mia).
Passano otto anni prima che “le gros Robert” si cimenti di nuovo con un film di guerra. Nel frattempo il cineasta americano è tornato a Hollywood, messo a segno due capolavori al femminile (Che fine ha fatto Baby Jane? e Piano… piano, dolce Carlotta) e girato un patrol picture (“film di pattuglia”) tutto al maschile su un gruppo di uomini costretti a un atterraggio di fortuna nel Sahara (Il volo della fenice). Se What Ever Happened to baby Jane? (1962) e Hush… Hush, Sweet Charlotte (1964) ebbero molto successo e risollevarono la carriera di Aldrich, The Flight of the Phoenix (1965) fu un fiasco letteralmente incomprensibile agli occhi del regista [11]. Eppure è proprio la carta del patrol picture che Aldrich ritenta un paio d’anni più tardi con quello che si rivelerà un vero e proprio trionfo commerciale: The Dirty Dozen incassò 18 milioni di dollari nel suo primo anno di uscita e divenne il primo film al box office del 1967. Oltre a ricevere quattro nomination all’Oscar, il film fruttò al cineasta il riconoscimento di regista dell’anno da parte della National Association of Theatre Owners.
[11] “Metto Non è più tempo di eroi, Il volo della fenice e Grissom Gang – Niente orchidee per Miss Blandish nella categoria dei buoni film, molto ben fatti. Le persone compresero di cosa parlassero, che cosa avevano intenzione di dire. Erano divertenti ed eccitanti e avrebbero dovuto essere dei successi. […] Non capirò mai il fallimento di Grissom Gang, strong>Non è più tempo di eroi o Il volo della fenice, perché erano film meravigliosi”, Robert Aldrich, ivi, p. 77 (traduzione mia).
Aldrich fece riscrivere allo sceneggiatore di fiducia Lukas Heller lo script di Nunnally Johnson per togliergli l’aroma anni ’40 ereditato dal romanzo di E. M. Nathanson e rimpiazzarlo con un’attitudine antiautoritaria in sintonia con quel sentimento d’insoddisfazione che sarebbe sfociato nel movimento antimilitarista di fine anni ’60. Pur non potendo prevedere con esattezza che il pubblico giovanile si sarebbe identificato pienamente coi recalcitranti soldati del film, Aldrich fece di tutto affinché l’avventurosa sceneggiatura di Johnson si tramutasse, grazie alla riscrittura di Heller, in un copione permeato di uno spirito anarcoide e anti-establishment. E furono proprio questi ingredienti, esaltati dal perfetto tempismo dell’uscita in sala, a decretarne l’enorme successo: “molte persone furono affascinate dall’anarchia dei primi due terzi del film e furono eccitate e/o stimolate e/o divertite dall’ultimo terzo. I primi due terzi furono il contributo di Heller nel renderlo un film del 1967 e non un film del 1947” [12]. La fortuna giocò senza dubbio un ruolo fondamentale, ma il fiuto di Aldrich nel captare lo spirito del tempo e trasferirlo fedelmente sulla pellicola fu altrettanto decisivo.
[12] Ivi, p. 50 (traduzione mia).
Quella sporca dozzina è il primo film di guerra girato da Aldrich con più di una macchina da presa: in virtù dell’esperienza maturata sul set italiano di Sodoma e Gomorra (Sodom and Gomorrah, 1962) il regista ha scoperto l’utilità di girare con più cineprese contemporaneamente: questo metodo di ripresa gli dà la possibilità di spolpare le sequenze fino all’osso e imprimere maggior dinamismo al film. Ciò che il “two-camera system” perde nell’assoluta esattezza della composizione del quadro lo recupera con gli interessi nella scioltezza del montaggio e nella possibilità di rendere più incalzante il ritmo [13]. La cesura stilistica nei confronti dei film precedenti è plateale: mentre Prima linea, Dieci secondi con il diavolo e Le colline dell’odio alternavano riprese lunghe in profondità di campo (specialmente negli interni) a secche sequenze d’azione, The Dirty Dozen riduce drasticamente la durata dei piani, privilegiando un fraseggio visivo rapido e spiazzante composto da circa 2500 inquadrature. Non diversamente da Il volo della fenice, anche Quella sporca dozzina è incentrato sulle dinamiche psicologiche che si creano tra un gruppo di soli uomini in condizioni estreme, ma la drammaticità della situazione (una missione suicida) è alleggerita da un umorismo beffardo e derisorio che la deforma sarcasticamente.
[13] In un’intervista del 1976, Aldrich si esprime in questi termini: “Negli ultimi dieci anni ho anche usato un sistema a due cineprese. Trovo che si perda forse il cinque o il dieci per cento nell’assoluta esattezza della composizione, ma si guadagna il cinquanta per cento nella fluidità del montaggio e la chance di cambiare il passo del film”, ivi, p. 107 (traduzione mia).
Le numerose soluzioni irrealistiche o approssimative dal punto di vista della credibilità e della veridicità (l’ispezione del plotone scelto nella caserma del colonnello Breed, la presa del comando durante l’esercitazione) passano nettamente in secondo piano rispetto al nucleo tematico del film: la riabilitazione morale di dodici pendagli da forca che imparano a spalleggiarsi a vicenda contro lo scetticismo e l’ostilità delle alte sfere. Eppure, sotto le mentite spoglie di una commedia avventurosa di ambientazione bellica scorre una vena antimilitarista ancora più corrosiva e disillusa di quella che permeava Prima linea. Se in Attack! le storture della gerarchia militare non impedivano la ribellione e l’affermazione della giustizia (anche se a caro prezzo), in The Dirty Dozen la redenzione degli sporchi dodici si identifica con un brutale sterminio e con la morte di quasi tutti i soldati impegnati nella missione. Molto più feroce ed esplicito del romanzo da cui è tratto (nel libro la distruzione del castello nazista non è descritta altrettanto dettagliatamente e sopravvivono più membri della dozzina), il quarto film bellico di Aldrich segna un ulteriore scatto di cinismo nella visione