Drammatico, Recensione

OPIUM WAR

NazioneCorea del Sud, Afghanistan, Giappone, Francia
Anno Produzione2008
Durata90'

TRAMA

Due soldati americani precipitano nel deserto afghano in mezzo a famiglie di sole donne e bambini, affidate ai ragazzi maschi più grandi. Una diversa prospettiva della guerra.

RECENSIONI

La guerra del deserto

Il vincitore, almeno per la critica, della terza edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, è un film sulla guerra; che questa si svolga in Afghanistan è secondario, poteva trattarsi dell’Iraq o del Vietnam o di qualsiasi altro paese: Opium war non affronta l’argomento né in chiave documentaristica, né come sfondo narrativo (per intenderci, quello che fa Scott nel suo ultimo lavoro, Nessuna verità), ma piuttosto come problema eterno che riguarda l’uomo e che, in quanto tale, è senza luogo e senza tempo; anche se lo fa, come vedremo, ponendosi su una linea diversa rispetto a quella individuale-esistenziale, pur complessa e molto varia, tracciata dal cinema americano decenni addietro (Apocalypse nowIl cacciatoreFull Metal Jacket) e che furoreggia in questi anni (si vedano gli ultimi Redacted, Nella valle di Elah e The Hurt Locker). Barmak, già apprezzato qualche anno fa per il suo discreto Osama, costruisce l’opera come una parentesi dalla normalità, dove la normalità è, com’è ovvio, quella dei due soldati americani che vengono precipitati dal mondo delle comunicazioni e del simultaneo, in cui tutto quello che si vede è passibile di definizione rigorosa e l’occhio non può più perdersi oltre l’orizzonte perché l’infinito (e dunque l’ignoto) è rigettato in maniera sistematica, verso un mondo privo di dove e quando che assomiglia più allo spazio del mito che non a quello del presente frenetico. La chiave della narrazione è, allora, uno stravolgimento di prospettive: Barmak sembra dirci che la tragedia della guerra non è descrivibile secondo criteri naturalistici, la si può solo rappresentare sottoponendola a una lente deformante: la lente è, qui, lo sguardo dei popoli dei deserti afghani, dominatori del nulla, per i quali i carri armati e gli elicotteri che non funzionano più diventano case nuove (di lusso per di più) e i campi di oppio sono solo coltivazioni domestiche e unica fonte di sopravvivenza. Si passa dal punto di vista del cielo, quello dei bombardieri che identificano la realtà in obiettivi, a quello della terra, in cui non c’è realtà da identificare, ma solo da “percorrere” e vivere; i due soldati sono costretti a penetrare entro questa prospettiva e abbandonano ogni tentativo di fuga, perché nel deserto non c’è un oltre da raggiungere e l’arrivo coincide sempre con la partenza (si veda il “girare in tondo” dei due); le gerarchie e il linguaggio militari, simboli di un ordine e di una “civiltà”, vengono lasciati da parte perché, nel contatto con un ordine e una civiltà “altri“, risultano privi di senso. Al centro di Opium war c’è dunque una dimensione collettiva: Barmak, raccontandoci la guerra, ci racconta anche il suo opposto, ovvero la possibilità di incontro tra popoli e di condivisione di valori, possibilità effimera e rigettata quasi sempre, a vantaggio dell’affermazione acritica del più forte; è quello che accade nel finale del film ed è quello che meno convince: l’ironia nei confronti della democrazia occidentale importata - una pagliacciata - e, soprattutto, dei militari americani che, quando rindossano le loro uniformi, assumono di colpo atteggiamenti farseschi, è fuori luogo rispetto alla delicatezza del resto del film - si pensi a come il regista traccia le dinamiche dei rapporti di un così singolare gruppo di famiglia (allargata) in un interno (riadattato), come quello che ci racconta - perché schematica e un po’ rozza, dando, retrospettivamente, un carattere di opera a tesi, altrimenti assente.