Drammatico

OPEN HEARTS

TRAMA

Joachim e Cecille si amano. Joachim rimane paralizzato in un incidente automobilistico; Cecille si avvicina a Niels, il marito della donna che l’ha investito.

RECENSIONI


Susanne Bier prende le mosse dal Dogma95 di Von Trier e Vinterberg; cosa ne resta dieci anni dopo la sua stesura? Il manifesto danese (riprese dal vero, niente scenografia, camera a mano, nessun suono riprodotto, illuminazione naturale, formato 35 mm), che nasceva come autentica provocazione contro il frasario imbalsamato del cinema alimentare – imporsi delle regole “assurde” per dimostrare che non esistono regole -, si è gradualmente ridotto, passo dopo passo, ad una sterile questione di principio oltranzista ed autocelebrativa (la successiva ed inconcludente circumnavigazione della Kidman in DOGVILLE, con camera in spalla a 360º, la dirà lunga sull’argomento), non priva di vezzi compiaciuti ma esteticamente fallimentari (la parodia involontaria di DANCER IN THE DARK). Nella signora Bier, quindi, non riponevamo particolari speranze; eppure... aggirando la strada parabolico/morale, il film si accontenta (per così dire) di raccontare, facendo dell’intreccio stesso la sua chiave di volta senza secondo fine; nella delicata scelta della materia drammatica (con un’eco da LE ONDE DEL DESTINO) OPEN HEARTS riesce a non esagerare, districandosi in equilibrio su quel filo sottile che lo mantiene credibile e compatto sino in fondo. Coniugando uno sguardo chirurgico (riflesso nello sfondo ospedaliero) alla virata calda e passionale (i diversi incontri amorosi), e presentando questo elementare contrasto allo spettatore senza filtro – quindi particolarmente toccante -, è un’opera viva e pulsante tanto da farsi perdonare le evidenti imperfezioni; la Bier sbaglia almeno un carattere (la figlia di Niels, intorno alla macchietta) e costruisce una manciata di snodi risaputi (tra tutti: le scene-madre piene di omissis e sospensioni, a rischio schematismo), nel gioco delle coppie non attinge certo da un bacino originale ma d’altronde lo ravviva con un gusto personale ed estremo, che non teme il tratteggio di una “strana” rivalità sentimentale (l’aitante medico ed il paralitico).
Il dato tecnico, forse di maggior interesse, è anche quello più sorprendente; indugiando con la camera a mano su corpi ed espressioni dei protagonisti, scavando patologicamente nei loro lineamenti, la Bier riporta un senso al cadavere del Dogma e ne propone una visione personale (nonostante qualche gratuità), fino ad estrarre almeno una sequenza d’impatto commovente (l’abbraccio “posticcio” tra Joachim e Cecille). La migliore intuizione della regista si incarna però nelle repentine svolte oniriche che suggellano il narrato, preziose perché quasi impercettibili, che per un attimo annullano il colmo di dolore e, dopo la tragedia, consentono ad una mano paralizzata di librarsi ancora nell’aria, ancora. La solida interpretazione di Sonja Richter spicca nell'ottimo cast.