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TRAMA
Una ragazza viene aggredita. Un gruppo di individui, guidati da un violento leader, inizia a sequestrare i responsabili: li interroga, tortura e costringe a firmare una confessione di colpa.
RECENSIONI
Non sapremo mai la causa della morte della giovane ragazza.
Ciò che interessa realmente a Kim Ki-duk sono le conseguenze di tale atto, il ruolo che esso ha nell’economia di un sistema di potere e della sua struttura gerarchica dove nessuno è esente da colpe. Tutti, inevitabilmente, ne siamo parte integrante e quindi complici. Così complici da voler affidare alla vuota retorica della parola una qualche forma di giustificazione.
One on One è senza dubbio l’opera con più dialoghi dell’intera filmografia del regista, un ribaltamento radicale rispetto al rituale silenzio del precedente Moebius. Qui è la conversazione a veicolare la violenza, i soprusi fisici, il sadismo della tortura, a cercare di imporre la propria visione (politica e morale) del mondo.
Tale ridondanza però sa di sterile propaganda, mai capace di sciogliere il nodo della corruzione dilagante, di scoprirne le cause, di abbozzarne un’interpretazione. Questo perché Kim Ki-duk mostra un’evidente sfiducia nella capacità di comunicare dei suoi personaggi, didascalicamente abbozzati in rigidi campo/controcampo, il cui confronto risulta sempre sfociare in quel potenziale atto naturale che è la violenza fisica.
E non basta la finzione a dissimularla. Il gruppo di emarginati che improvvisa una resistenza al sistema, nel suo gioco di maschere, non fa altro che replicare gradualmente la stessa gerarchia dalla quale vuole dissociarsi. Man mano che si sale la piramide per cercare il “vero” colpevole, all’interno della squadra si crea una sempre più spiccata leadership, con uno dei membri che arriva a svelare quanto dietro a una rivincita sociale ce ne sia invece una squisitamente privata.
E si torna sempre lì, a quel tema tanto caro al regista dell’individualità dell’essere umano, che si ritrova in una perenne stato represso di outsider.
La prima vittima Oh Ji-Ha è l’unico personaggio che assume una prospettiva esterna (registica) e nel pedinare i vari membri del “commando” ne mette in luce le evidenti contraddizioni, il gioco di ruolo messo in scena per eludere la condizione precaria. La finzione diventa così riscatto sociale, strumento, illusoriamente paritario, di esercizio del potere.
Ma tutto è destinato ad avere vita breve, in uno scontro con la realtà che rivendica la propria natura complessa, dove il cinema stesso urla i propri limiti essendo privato della testimonianza di una ripresa (“E’ finzione, non c’è alcuna ripresa”, Oh Ji-Ha).
Se la realtà per essere compresa ed esorcizzata ha necessariamente bisogno di un filtro finzionale, tale filtro risulta manipolatore: un valore individuale che ripropone, ciclicamente, la stessa violenza sull’altro che fino ad allora voleva essere contestata.
Il doppio travestimento di Oh Ji-Ha per avvicinarsi al leader, da monaco buddista prima e da militare con la maschera antigas dopo, è sintomatico di un immaginario, quello di Kim Ki-duk, che perpetua nuovamente la propria crisi. E non c’è catarsi, perché la pulsione vendicativa, che è il motore principale del susseguirsi degli eventi, chiude il cerchio con una violenza disarmante spegnendo persino l’unico vero atto primordiale di liberazione.
Non ci sono parole, solo urla. E la maschera, quella di noi tutti e di Kim in particolare (che richiama il suo alter ego in Amen), pone fine a quello squarcio di verità che cade sotto i colpi del cinema.

Kim distrugge il suo mondo a parte. E’ svanito il simbolismo piano di Soffio e Dream, ma anche la violenza contestualizzata degli esordi: qui il contesto sfiora lo zero e One on One porta iscritta una “violenza pura”, gridata perché scarnificata, un umore assoluto sempre più vicino all’Idea in sé. Il ventesimo film del coreano è lo scheletro di un fare cinema, concetto stesso di revenge (molte figure non hanno nomi, l’intreccio non è spiegato) che sabota la forma delle relazioni umane attraverso la mascherata dei torturatori: la convenzione meccanica dei dialoghi a tavolino tra cibo, oggetti e frasi di circostanza, insomma il “mondo di giorno” impaginato in toni chiari subisce la riscossa dei rapitori notturni, volti scolpiti nelle tenebre che non accettano la superficie (“Ho fatto ciò che mi è stato ordinato” è sempre la risposta sbagliata). Alla base c’è un’unica idea, ma qui il dubbio angolare (violenza chiama violenza?) diventa gradualmente complesso: i vendicatori “sostituiscono” i loro obiettivi con altri, si vendicano per interposta persona e innescano una spirale, nelle cui volute si aprono continuamente spazi per l’elaborazione etica. Questo incessante riflettere, che passa per una scrittura patetica o dimostrativa, che soffre una durata slabbrata (troppi minuti per una parabola), non ha soluzione, anzi: One on One ci conduce alla fine del mondo. La crisi creativa di Kim, già esposta a nudo in Arirang, oggi sfocia nella tenace distruzione del proprio terreno narrativo: dietro la metafora urlata il suo cinema ambisce a raggiungere il vuoto, un vuoto sensato con l’obiettivo preciso di abbattere un sistema di finzione. Per questo il film “ripassa” sia l’usura tardo-capitalista di Pietà, sia l’accanimento fallico di Moebius, e infine si avvita su sé stesso. L’ideologia è un travestimento, la violenza viene punita solo se ci riguarda, la reazione, persino la vendetta, scatta a comando. Nel teatro della tortura la recita può finire quando i personaggi escono dal ruolo e smettono il costume: ma il domino che avvia, la vendetta “di secondo grado”, questa è davvero implacabile. E genera un mostro: un super soldato, ennesimo correlativo oggettivo del regista, annuncio della vendetta all’infinito, pronto a distruggere il (suo) mondo. L’inquadratura finale alla città espande il contagio. L’universo di Kim si astrae, collassa, produce l’apocalisse.
