TRAMA
Nei sobborghi di una metropoli neozelandese, vivono in povertà i nativi maori, fra cui la famiglia Heke, con padre violento ed alcolizzato, due figli dediti alla delinquenza e una madre che non sa più come giostrarsi.
RECENSIONI
Tratta da un best seller in patria (di Alan Duff, 1990), l’opera prima di Tamahori (pluripremiato pubblicitario di padre maori) è dura, potente, violenta, ha fatto il giro del mondo con successo e aperto le porte di Hollywood al regista: con stilemi da cinema suburbano anni settanta e aggiornamenti da cinema afroamericano (linguaggio becero, sensualità, fisicità…), descrive l’emarginazione dei discendenti dei neozelandesi originali senza, per questo, attivare un (facile, retorico) j’accuse nei confronti del razzismo-colonialismo bianco. Procede per categorie simboliche, elettive, finanche antropologiche ed ancestrali: il genere femminile tenta, invano, di farsi portavoce dell’Amore e del sentimento familiare fra maschilismo e legge della giungla; quello maschile, invece, è dedito all’alcol e alla violenza. C’è un’ulteriore distinzione fra i discendenti: chi prende a modello la stirpe di schiavi e chi, invece, quella dei guerrieri maori più fieri. Il padre, detto Jack la Furia, energumeno impressionante, porta dentro di sé una rabbia secolare figlia della frustrazione, ed è davvero spaventoso nella sua aggressività, ma non è un guerriero: rimane schiavo, il fanale di coda di una cultura altrui, autodistruttivo, bestiale ed ignorante (l’ostracismo nei confronti della figlia che ama scrivere). I guerrieri sono di animo ben più nobile, tentano di preservare identità e tradizioni che, nello scenario urbano, faticano ad esprimersi se non a frammenti (i riti iniziatici della gang; i pittoreschi tatuaggi; i racconti della madre ai figli; l’arte di lottare nel riformatorio). Tamahori alterna, drammaturgicamente, attimi di distensione e quiete apparente ad esplosioni immani, davvero scioccanti e disturbanti per violenza e tragicità, ma tutta la pellicola vive di una tensione a fior di pelle, di un furore pronto a esplodere, ben “disegnato” dalla fotografia color arancio di Stuart Dryburgh (titoli di testa e coda, invece, giocano con il rosso del sangue ed il nero della pelle), dai numerosi dolly di Tamahori, da un soundtrack strepitoso e dalla prova fenomenale di Rena Owen, eccezionalmente espressiva.
