TRAMA
Massimo e Giulia si innamorano a prima vista. Ma il Natale è vicino. E ci sono i parenti.
RECENSIONI
Boris (la serie) era una metafiction di rara intelligenza. Un vero cortocircuito in cui la riflessione sul suo essere serie toccava livelli di autoironia e autocritica sublimi, con attori come Sermonti che si prestavano al gioco con una dedizione e un’abnegazione quasi eroiche. Al di là delle pippe autoreferenziali, però, il dato macroscopico era la comicità. Boris faceva ridere. Molto. Al netto di qualche fisiologica caduta, c’era quell’aura di caos controllato, di sguaiatezza scientifica per larghi tratti irresistibile. Col filo rosso dell’intelligenza sopraffina di cui si scriveva in apertura. Il Film (ovviamente nel film) si spingeva ancora di più sui territori dell’amarezza, presente in dosi già massicce nella serie, ma che nel film diventava – forse – la vera protagonista, al punto di sconfinare nel tragico. A scapito, forse, della comicità propriamente detta e intesa. Un ritratto impietoso del mondo dello spettacolo italiano che diventava affresco disperante di un Paese Intero, ingabbiato nei suoi meccanismi perversi fatti di nepotismo, ottusità e corruzione in tutte le possibili accezioni del termine. Ma non è che si ridesse molto, ecco.
In Ogni Maledetto Natale, il discorso autoreferenziale non solo prosegue ma si fa ancora più estremo, perché esce dalla fiction ed entra nella realtà: i protagonisti della serie, René/Pannofino per primo, avevano abbandonato Boris (la serie) per avventurarsi al cinema. Nel Film, infatti, René voleva darsi al Cinema (d’Autore) ma, come si ricorderà, si vedeva costretto a convertirsi al Cinepanettone. Quello che succede adesso, però, è che gli autori della serie, che avevano fatto il salto al cinema girando una commedia amarissima (autoriale?), col secondo film hanno girato davvero un Cinepanettone, destinato a scontrarsi con Neri Parenti, Massimo Boldi e le new entries alla Volfango De Biasi. Duello certificato dal fatto che, nei multisala, prima della proiezione di OMN, passano trailer di prodotti teoricamente omologhi. Come il nuovo Neri Parenti, Ma tu di che segno 6?, in cui una delle gag clou è quella in cui Massimo Boldi si chiude l’uccello nella lampo dei pantaloni e grida “bèshtia che dolooore!”.
Ecco, partendo da quell’uccello nella lampo, risulta evidente che il film di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo abbia quantomeno il merito pedagogico di educare il pubblico unavoltalanno a un altro tipo di comicità. La speranza, cioè, è che lo spettatore che continua a ridere per gli uccelli nelle lampo, per gli attacchi di dissenteria e per le checche che sculettano, magari si avvicini a qualcosa di più evoluto cogliendo, finalmente, la – chiamiamiola - perdita di freschezza della comicità paleovanziniana. E quella di OMN non è, giustamente, una terapia shock: la comicità del trio è perfettamente riconoscibile ma ritarata verso il basso, con meno sottintesi/sottotesti e più pancia. La prima parte del film, così, schiaccia il piede sull’acceleratore del grottesco, inanellando una serie di sequenze che strappano l’ilarità sguaiata (la riffa, lo spurchiafiletto) mentre nella seconda la risata si fa più ragionata, con le sfuriate antiborghesi che fanno da contraltare alle precedenti derive antiburine, nobilitate entrambe da un gusto dell’eccesso autoassolutorio. Perché diversamente, se l’esagerazione non fosse evidente e intenzionale, in entrambi i casi il razzismo para-parentiano sarebbe alle porte (si pensi al ritratto caricaturale dei filippini – e al Benji di Guzzanti - solo per fare un esempio). Ma invece ci si ferma un passo prima, rimanendo nei territori della risata liberatoria, quando non edificante nella sua amarezza (il suicidio di Jimmy. O Jonny?).
Il film concede anche qualcosa in termini di “storia tradizionale”, ed è forse lì che il trio si trova meno a suo agio e rischia di scivolare. La vicenda amorosa, infatti, dopo un avvio meta- (la voce over che ironizza sull’amore a prima vista) sembra assumere una vera consistenza drammatica (ovvia concessione commerciale) ma fa a cazzotti con i già citati eccessi grotteschi. Come se si cercasse di far convivere chiavi di lettura surrealiste (le famiglie interpretate dallo stesso cast, come se ci trovassimo in due universi paralleli) e narrazione classica (tra le due sezioni del film c’è invece vera continuity). L’effetto è un po’ straniante: allo spettatore si chiede da un lato di astrarre, di accettare una messinscena diventata chiaramente iperbolica e simbolica (le due facce di una stessa medaglia antropologica) ma dall’altro di continuare a crederci e di seguire la vicenda sentimentale come se niente fosse. Fino all’happy end che si colloca a metà del guado e rischia di scontentare tutti, sia gli spettatori in cerca del meta-finale autoironico e dissacrante sia quelli che hanno deciso di stare al gioco e di seguire il grado zero della vicenda.Ma ci sta. Ogni Maledetto Natale rimane un film laterale e prezioso nel panorama cinematografico italiano, specie di questi tempi. E fa maledettamente ridere.

Ogni maledetto Natale esce un po' in anticipo rispetto ai tempi classici delle feste, sottraendosi così alla rissa più scomposta ed impegnativa tra le fin troppo numerose pellicole che mirano ai grandi incassi. Con la parola Natale nel titolo non sfugge d'altra parte al gioco, provando a giocare d'anticipo, complici gli addobbi ed i panettoni prematuri che impongono da novembre l'atmosfera natalizia tra i potenziali spettatori.
Ogni maledetto Natale si presenta prima di ogni altra cosa come il film del trio Ciarrapico-Torre-Vendruscolo, gli autori di Boris, quello che sul fronte comico rappresenta ciò che sul fronte drammatico è Romanzo criminale, cioè - a parere di chi scrive - il miglior telefilm italiano degli ultimi anni. Il trio si era già cimentato con una versione cinematografica di Boris, con esiti tutto sommato positivi.
L'aspettativa, almeno per i cultori della serie, era dunque elevata, alimentata anche da un gruppo di attori fortemente borisiano - composto dal cast originario della serie (Francesco Pannofino, Caterina Guzzanti, Andrea Sartoretti…) o da "amici" apparsi in più o meno frequenti ospitate (Corrado Guzzanti, Marco Giallini, Laura Morante…) - e, più in generale, straordinariamente ricco e blasonato.
La forte personalità degli autori registi si palesa già nell'impostazione di partenza. Una commedia difforme da quella classica delle feste in particolare, ma anche dalla tipica commedia all'italiana. Niente gioco degli equivoci, niente gag fisiche, niente volgarità e doppi sensi, niente nudo e attrici procaci, niente ammiccamenti complici ai vizi nostrani (corna, mazzette e compagnia di rito). Quanto all'immancabile contrapposizione Nord-Sud e ricchi-poveri, nella forma tradizionale si può ravvisare solo l'ombra della seconda. Siamo invece nel campo della comicità surreale, nella maggior parte dei casi. L'idea portante è quella di far interpretare a ciascun attore due personaggi diversi inseriti in due contesti differenti. Unica eccezione sono i due protagonisti Cattelan e Mastronardi, il cui incontro ed innamoramento (e la cui esistenza come personaggi) è puro pretesto necessario alla messa in scena delle due contrapposte rappresentazioni famigliari.
l film si compone così di una prima ed una seconda parte: la cena della vigilia presso una famiglia allargata nella campagna della Tuscia laziale ed il giorno di Natale nella casa di una famiglia di ricchi industriali di origine settentrionale. "Burini" per antonomasia, quasi belluini e primitivi i primi, fatui ed isterici i secondi.
Nel confronto la seconda parte risulta più riuscita della prima. Lo scenario rozzo e campagnolo mette in scena una comicità inefficace ed incompiuta, sulla carta grottesca, alla visione sterile in quanto non comica. Meno infelice il quadro degli industriali con i nervi a fior di pelle e dei loro numerosissimi domestici filippini. L'esito è prevalentemente modesto, ma i ritratti sono più compiuti e qualche battuta strappa un sorriso.
Come in Boris, si cerca un approccio politicamente scorretto. Non si indulge in alcuna contrapposizione nostalgica tra campagna idilliaca e città inumana, al contrario si sbeffeggia l'ignoranza dei parenti della protagonista fuggita a laurearsi in città. Niente guanti di gomma neppure con i filippini di casa Martinelli: se i padroni li considerano intercambiabili come i loro nomi, puro arredo e strumento domestico, persino più cinico è il personaggio interpretato da Guzzanti (evoluzione del filippino ideato qualche anno fa per la televisione)). Tutto questo, però, senza una satira sociale moralista studiata a tavolino.
Differenziarsi nello stile e sfuggire a cliché buonisti o didascalici non è però sufficiente a raggiungere l'obiettivo di divertire il pubblico. E il grande dramma di Ogni maledetto Natale è che nonostante molti grandi attori e nonostante parecchie idee di sceneggiatura, non fa mai davvero ridere e solo ogni tanto sorridere.
Il film paga in modo evidente il fatto di non poter contare sulla serialità e dover quindi introdurre tantissimi personaggi sconosciuti per il pubblico senza lo spazio ed il tempo necessario a svilupparli. Anche da qui deriva l'effetto indifferenza e straniamento davanti a quasi tutti i buzzurri del primo tempo, ma anche davanti al fanatico religioso di Mastrandrea - per tacere della ricca disturbata della Guzzanti.
Sempre da questo affollamento eccessivo, inadeguato ad una pellicola cinematografica, deriva il soffocamento della maggior parte degli interpreti.
Peccato, in questo caso più che in altri, peccato.
