TRAMA
Fine anni ’70. Sono giovani, belli e hanno appena 25 anni. Si incontrano per caso e si innamorano perdutamente. Un avvenimento inaspettato però li separa. Per trent’anni inseguono comunque la speranza di ritrovarsi, perché si amano ancora.
RECENSIONI
L’amore concretizzato ma non realizzato che diventa ingombrante assenza, lo scorrere del tempo che tutto impolvera, la memoria delle cose, ciò che rimane, il cinema come punto fermo delle nostre vite. Sono questi alcuni degli elementi che si intrecciano nel nuovo film di Ferzan Özpetek, claudicante ma in grado di regalare suggestioni. Il racconto comincia negli anni ’70 all’interno di un cinema, in cui alle proiezioni d’essai si affiancano rapporti promiscui nelle toilette. Un primo incontro non consumato, tra un frequentatore abituale e un nuovo arrivato, evolve in cocente passione, ma poi la vita, con le sue mancate quadrature, travolge l’”amore splendido” che resta una promessa di felicità, sempre più desiderato (forse proprio perché troncato sul nascere), ma poi messo tra parentesi, vivo nel ricordo, ma lì soltanto. Fino a quando la vita, soprattutto la sceneggiatura bislacca, non torna a metterci lo zampino. C’è aria di melodramma, di amori tanto più assoluti quanto più impossibili, di sliding doors che idealizzano di un multiverso in cui poteva andare in modo differente.
Non tutto funziona, e nel passaggio dalla bella idea al film alcune cose si perdono, altre stridono, ma non perché è tutto improbabile (quando mai un melodramma, con le sue altalene di sfighe e gioie, è stato coerente e plausibile?), ma perché dopo premesse interessanti la sospensione di incredulità ha più di un cedimento. A non essere di aiuto sono principalmente il trucco & parrucco, che allontana dalla verità dei personaggi in quanto riconoscibile, alcune legnosità nella recitazione (non tutti sono bravi come Luisa Ranieri nell’infondere vita ai loro personaggi) e una sceneggiatura un po’ affrettata nell’arrivare al dunque. I dialoghi (in cui il regista si toglie anche qualche sassolino dalla scarpa) sono improntati all’effetto, la musica fiammeggiante di Andrea Guerra e la luce calda di Gian Filippo Corticelli fanno di tutto per rendere struggente l’amore mancato tra i due protagonisti, ma vuoti e pieni si rincorrono in cerca di un equilibrio che tarda ad arrivare e giunge bello rotondo solo nella sequenza che accompagna i titoli di coda. È infatti sulle note di Povero amore, cantata da Mina, che il film riesce, senza bisogno di parole, a trasmettere tutta la malinconia e i rimpianti a lungo evocati. Il maggiore corto circuito è però quello causato dal mancato arrivo nelle sale di un film che celebra il cinema come collante delle nostre vite.