Recensione, Thriller

NOWHERE TO HIDE

Titolo OriginaleInjeong sajeong bol geot eobtda
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione1999
Genere
Durata112'
Sceneggiatura

TRAMA

Il detective Woo è sulle tracce del misterioso gangster Sungmin, un maestro del travestimento che riesce sempre a eludere i suoi inseguitori. Alla fine, il poliziotto rintraccia e affronta il capo del crimine nei sobborghi di una città mineraria di carbone.

RECENSIONI

Di paradigmatica convenzionalità la trama di Nowhere to Hide: uno sbirro (in realtà sono due, ma poco importa: facce della stessa medaglia) che dà la caccia a un killer letale e inafferrabile come un fantasma. A Lee Myung-se non interessa ricavare sfumature insolite o risvolti originali dal canovaccio narrativo. La specularità dei ruoli basta e avanza per squadernare, complice la fascinazione di ordinanza, una destrutturazione iconografica di furibonda radicalità: spazi e tempi vengono frantumati e ricomposti sinteticamente in una versione “cubista” dell’action/poliziesco. Analogamente i corpi vengono smembrati in particolari che tendono a riassumerne dinamicamente la tensione: bocche digrignanti e pugni serrati condensano l’energia pronta a scattare, esprimono la posa carica di potenzialità cinetica (il cineasta coreano ha dichiarato di essersi ispirato alle sculture di Rodin per raggiungere questa concentrazione). Scontati gli elogi per la prova sinergica dei rivali Park Joong-hoon (il detective Woo) e Ahn Sung-ki (Chang Sungmin): alla terza apparizione in coppia sul grande schermo (la quarta avverrà sette anni dopo, nell’agrodolce Radio Star di Lee Joon-ik) i due confermano una compatibilità assoluta. Sequenza da incorniciare: il piovoso assalto all’arma bianca sulle note di “Sunrise” dei Bee Gees.